“Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”. Cento anni fa nasceva Giovanni Paolo II, ovvero Karol Józef Wojtyła. Era nato a Wadowice, il 18 maggio 1920 e morto in Città del Vaticano il 2 aprile 2005. Il giorno di San Francesco di Paola.
Voglio qui raccontare un episodio realmente accadutomi consapevole di questo suo concetto: “La grandezza del lavoro è all’interno dell’uomo”, perché “La libertà non consiste nel fare ciò che piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve”. Ero in partenza per Santo Domingo. Alla Fiera internazionale del Libro del 2005. Dovevo rappresentare la cultura italiana in quella “piazza” del mondo e i miei interventi erano stati già programmati: da Prezzolini alla poesia del Novecento, Da Dante nel Novecento alla mia esperienza di scrittore. Ci fu un cambio di programma repentino. Venni chiamato dal Ministero (dei beni culturali) e mi chiesero di sviluppare alcune relazioni su Giovanni Paolo II poeta e letterato. Avevo come tempo per preparare le mie relazioni lo spazio tra Roma, Parigi e Santo Domingo.
Fu una esperienza dolce e inquietante. Doveva, infatti, parlare di Giovanni Paolo II poeta. Arrivato all’aeroporto di Santo Domingo, con un fuso orario da capogiro, mi sono trovato tra le mani fogli sparsi pieni di appunti e un poemetto che avevo scritto lungo le ore del viaggio. Santo Domingo fu la prima città oltre l’Europa che accolse nella festa della vita Giovanni Paolo II.
Da quegli appunti nacque il mio libro su Giovanni Paolo II dal titolo “Canto di Requiem”. Fu così! Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Giovanni Paolo II. Ma cosa è stata quella lettura, quelle conversazioni dalla mattina alla sera? Cosa è la poesia del Santo Giovanni Paolo II?
Un andare lento, con passi leggeri, nella geografia di un’anima che dipana misericordia e bellezza senza mai disperdere i tocchi della vita, una vita con i suoi sguardi e i suoi silenzi e sorrisi, che è nel passato ed è nel presente: “Luogo del mio passare-/così legato al luogo della nascita…/Nei volti dei passanti v’è il disegno di Dio,/ed il suo abisso scorre dietro la vita quotidiana…”. Sono versi di Giovanni Paolo II. Un Papa poeta il cui tracciato nella storia dell’uomo, delle civiltà e dei popoli resta indelebile. Il sacro e la parola. Diceva spesso: “Al di fuori della misericordia di Dio non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani”.
Non una linea ma un cerchio. Si ritorna. La poesia è un ritornare. Dalle albe ai crepuscoli. Dai tramonti all’ora antelucana. Ed è sempre un viaggio nell’attesa che cerca l’attesa. La poesia di Giovanni Paolo II (autore di opere teatrali oltre che di testi poetici e interventi teorici sul teatro) è mistero e rivelazione. Un dialogare costante con quel linguaggio che non ha mai trascurato il colloquio con l’uomo ma che intrecciava il disegno umano con quello evangelico. Una poesia nel misterioso del tempo che si allunga tra le ali dello spazio. Pur nella cristianità dell’uomo nella poesia di Giovanni Paolo II si avverte un non voler trascurare l’incontro tra il tempo e lo spazio.
Nei versi del 1952 dal titolo: “Pensiero – strano spazio” si avverte la profondità di questa visione. Una visione – dimensione in cui i segni e il sacro non sono solo modelli pastorali ed evangelici ma anche marcatamente culturali. Una poesia in cui le visioni (o la visione) sono simboli.
Si ascolta: “Se soffre per mancanza di visione – deve allora aprirsi la strada fra i segni/fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto nella parola./E’ questo il peso che in sé avvertì Giacobbe/quando in lui caddero stelle stanche come gli occhi del suo gregge?”.
C’è un tracciato indelebile nella poesia di Giovanni Paolo II che potrebbe riassumersi attraverso alcune sottolineature. Un tema dominante resta indubbiamente quello della luce oltre il deserto. Una testimonianza spirituale e poetica che può essere riassunta in sei riferimenti. Ovvero: il silenzio e il mistero, la preghiera e la speranza, la meditazione e l’uomo, l’inquietudine e il viaggio, la contemplazione e la morte, la Redenzione e il Cristo. La sua poesia (ha scritto e pubblicato diversi testi) è una forte componente del misterioso che attraversa la parola. Un linguaggio in cui metafora e realtà primeggiano ma al centro si focalizzano sempre l’amore, la morte, la carità, il dolore.
Restano emblematiche le poesie del 1939 e in modo particolare gli struggenti versi dedicati alla madre dal titolo: “Sulla tua bianca tomba”. Il ricordo della madre, l’immagine di Cracovia, i luoghi della sua infanzia si intrecciano con un canto che richiama costantemente una silenziosa contemplazione. Una contemplazione che anche letterariamente si agita in una metafisica dell’anima che è segno tangibile di un raccordo tra parola e offerta d’amore.
Versi suggestivi: “Sulla tua bianca tomba/sbocciano i fiori bianchi della vita./Oh quanti anni sono già spariti/senza di te – quanti anni?//Sulla tua bianca tomba/ormai chiusa da anni/qualcosa sembra sollevarsi:/inesplicabile come la morte.//Sulla tua bianca tomba,/Madre, amore mio spento,/del mio amore filiale/una prece://A lei dona l’eterno riposo”.
La morte come rivelazione e la rivelazione, nella parola e nella poesia, è un sollievo misterioso e come tale indefinibile. Si pensi ai versi del “Canto del Dio nascosto”. L’uomo Karol nella storia di un pontificato. La poesia ha il pregio di raccordare anche questi aspetti in una temperie in cui la letteratura potrebbe farsi miracolo proprio attraverso il mistero della parola. Metafore che hanno un valore poetico espressivo singolare: “…era il Mare che stava dentro di me/spandendo intorno tanto silenzio tanta freschezza”.
In fondo la poesia è mistero che chiede alla contemplazione di farsi vita. Nella poesia di Karol Wojtyla questi aspetti sono predominanti. Una poesia dai toni incisivi con un verseggiare che a volte diventa rarefatto e a volte il dato prosastico prende il sopravvento. Ma si tratta di un poesia fatta di immagini e la sua tensione lirica è sempre un colloquiare. Il colloquio sta ad indicare che l’altro c’è sempre e che si ha sempre bisogno dell’altro pur nella consapevolezza di un io che supera ogni orgoglio. La poesia è in questo superamento. La sua poetica è dentro il contesto letterario contemporaneo. Un processo letterario in cui libertà (o pluralismo) e sacro costituiscono elementi non solo teologici ma anche poetici. In fondo la poesia di Wojtyla è un percorso dentro il mistero della parola. Ecco il mistico che attraversa la teologia e vive il cammino di Cristo: “Non abbandonatevi alla disperazione. Siamo il popolo della Pasqua, e Alleluia è la nostra canzone”. Perché: ““Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!”.
L’importanza della comunicazione del linguaggio poetico trova nella poesia di Giovanni Paolo II un messaggio che è di fede chiaramente ma l’inquietudine che è nell’uomo si registra come partecipazione ad un dolore che non è singolo ma piuttosto comune. L’amore e la morte sono intrecci dentro i quali la vita è una navigazione quotidiana. Il grande scrittore mistico: ‘Non “lasciatevi vivere’, ma prendete nelle vostre mani la vostra vita e vogliate decidere di farne un autentico e personale capolavoro! L’anima e lo spirito sono navigazione e il viandante è il messaggero della speranza. La poesia nel misterioso diventa preghiera. “Questi occhi stanchi sono il segno/che le acque oscure della notte fluirono in parole di preghiera/(carestia, carestia di anime)./Ora la luce del pozzo vibra profonda nelle lacrime/scosse – penseranno i passanti – da una ventata di sogni” (da “Canto dello splendore dell’acqua” del 1950).
Sempre in questa raccolta il poeta insiste sulla necessità di scavare nella parola. In quella parola che ha colpito poeti profondamente laici ma marcatamente cristiani come Giuseppe Ungaretti. In Giovanni Paolo II la parola è sempre un richiamo, soprattutto quando sono semplici. Così: “Erano semplici le parole. Mi camminavano accanto come/agnelli ad un richiamo”. La parola è contestualmente portatrice di meditazione e di preghiera. La parola è la luce che supera il deserto. E l’attesa che vive dentro la parola è sempre “un’attesa di stelle”. E nell’attesa non può che definirsi la nostalgia della memoria che diventa un luogo sacro come in “La madre” del 1950.
Così nei ritagli e nelle pieghe delle parole: “Il mio spazio scorre nella memoria. Non svanisce/il silenzio di viuzze lontane,fermo nell’aria come vetro/che nelle pure iridi si sbriciola in luce e zaffiro –…”. La preghiera è una essenza che vive nel tempo, oltre la storia. Una parola, dunque, che ci riporta a San Francesco d’Assisi e in molte occasioni ci richiama quel Jacopone da Todi che ha segnato un percorso indelebile nella poesia religiosa. Ebbe a scrivere Vittorio Messori: “Il cristiano Karol Wojtyla è convinto che l’uomo abbia smarrito le chiavi che permettono di aprire il cassetto dentro il quale sta il libretto di istruzioni per l’uso dell’uomo stesso. Per lui, i fratelli in umanità non sono certo «cattivi»: semplicemente, sono smarriti, confusi, sbandati, plagiati da cattivi maestri, da suggestioni ingannevoli”.
Resto sempre convinto con lui che “L’amore è un’esigenza ontologica ed etica della persona”. Oltre la storia ma dentro lo spazio come in alcuni versi del 1965 dal titolo “Spazio interiore” della raccolta “Pellegrinaggio ai Luoghi Santi”. “Il mio spazio è dentro di Te. Il Tuo spazio è dentro di me…/Questo spazio lo hai scelto/ da secoli. Lo spazio in cui offri Te stesso ed in cui mi accogli”. Un pellegrinaggio nel cuore degli uomini i in quello “spazio dell’anima” in cui la parola dal mistero entra nella Redenzione. La poesia è un segno dell’esistenza. Cosa ci racconteremo “Quando saremo sulla riva d’autunno”? Un verso emblematico della raccolta “Meditazione sulla morte”. Non una alchimia. Il linguaggio che accompagna i segreti della rivelazione. La poesia è un messaggio che non si perde. Nella metafisica dell’anima. Così la poesia di Karol Wojtyla. Quella poesia che nasce dall’uomo ma che è chiaramente dettata da un Dio che ci guida, che ci indica, che ci salva. Non una poesia del mistero o del sacro. Ma la poesia è mistero, è sacralità, è viaggio nel cuore dell’uomo. Scrisse Benedetto XVI: “Karol Wojtyła – Giovanni Paolo II, che sin da giovane si mostrò intrepido e ardito difensore di Cristo: per Lui non esitò a spendere ogni energia al fine di diffonderne dappertutto la luce; non accettò di scendere a compromessi quando si trattava di proclamare e difendere la sua Verità; non si stancò mai di diffondere il suo amore”.
La poesia di Karol e di Giovanni Paolo II costituiscono, infatti, un viatico: dall’uomo a Dio. Una Passione nella consapevolezza della vita e della Redenzione. La poesia ci rivela e ci avvicina. Nell’indefinibile sostegno al Tempo eterno. Un tempo circolare. Proprio per questa ha una funzione redentrice. La grande poesia non può fare a meno di questo sostegno. Sia sul piano puramente letterario che su quello esistenziale. “Canto di Requiem” resta come tassello incastonato nella mia vita e trova spazi e accordi tra i miei giorni. È stato il 264º papa della Chiesa cattolica e, quindi, vescovo di Roma. È da annoverare come il 6º sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Ecco come questo pensiero me lo sento cucito addosso anche, a dire il vero, inascoltato: “Se desiderate veramente seguire Cristo, se volete che il vostro amore per Lui si accresca e duri, dovete essere assidui nella preghiera. essa è la chiave della vitalità della vostra vita in Cristo. Senza la preghiera, la vostra fede e il vostro amore moriranno. Se siete costanti nella preghiera quotidiana e nella partecipazione domenicale alla Messa, il vostro amore per Gesù crescerà. E il vostro cuore conoscerà la gioia e la pace profonda, quali il mondo non sarà in grado di dare. Dedicate, dunque, tutti i giorni un po’ di tempo della vostra giornata a conversare con Dio, come prova sincera del fatto che lo amate, poiché l’amore cerca sempre la vicinanza di colui che si ama”. Come per sottolineare ciò che disse Benedetto XVI “Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, ma di una Chiesa più divina. Solo allora essa sarà veramente umana”.
PIERFRANCO BRUNI, RESP. Letteratura e Etnìe MIBACT