La letteratura può raccontare una Nazione e un popolo? Nelle ambiguità e nella fierezza, nelle contraddizioni e nel dolore tutto si racconta. Ma guai se un popolo e una Nazione negano o cancellano l’opera o il pensiero della letteratura. È una sciagura tristemente inquietante se altre Nazioni tentano di negare l’esistenza di una cultura e con essa scrittori, artisti, poeti, musica. Sarebbe come tentare di uccidere l’arte. Quando una Nazione e un popolo negano e cercano di uccidere il pensiero e le arti sono nazioni che hanno dimenticato la storia.
La Russia di oggi è una civiltà complessa e variegata. Si pensi in letteratura agli estremi e al vissuto di personalità come Evgheni Evtushenko e Solgenitsin. Su Evtushenko voglio soffermarmi. Il quale resta un poeta che ha capito tardi che il realismo non ha poesia. È morto a Tulsa L’1 aprile 2017. Poeta del segno e del senso in una Russia dalle tradizioni tolstoiane, ha saputo raccogliere la testimonianza di un post leninismo che sé stretto in un passaggio pre e post stalinismo. Un tempo in cui la poesia aveva un peso come valore del pensiero ma anche come provocazione.
La poesia ha saputo sviluppare anche la sua rivoluzione. La letteratura nella sua manifestazione di desiderio di verità. Una diaspora che ha visto, nel comunismo post staliniano, le contraddizioni di un Evtushenko misurate con la visione tragico religiosa di Solgenitsin. Sosteneva: “Lo scopo della vita è la maturazione dell’anima. Non rincorrere quello che è illusorio, come la proprietà o la posizione. Tutte cose che vengono ottenute a spese dei nervi, decennio dopo decennio, e sono confiscate nella notte della caduta” (A. I. Solzhenitsyn).
Il poeta che ha cercato di raccoglie il tempo nei versi fermandosi alla superficie. Lo scrittore che vive nel dramma la sua diaspora e nella fede il senso della tradizione. Si vive e si muore tale parole. I poeti e gli scrittori sono i devastatori del conformismo.
Così Evtushenko: “Amare la Russia è felicità plurinfelice./Cucito a lei sono con le mie proprie fibre./Amo la Russia e il suo potere tutto vorrei amare,/ma ne/ho la nausea, vogliatemi scusare.//Non ho saputo vivere in modo irreprensibile, da saggio,/ma voi con debito di colpa rammentatevi/il ragazzino con albore di libertà negli occhi,/luminosa più che vivido raggio.//Essere imperfettissimo io sono,/ma, scelta la mia ora preferita – il primo albore,/Dio creerà di nuovo innanzi giorno/gli alberi dai raggi trapassati,/me stesso trapassato dall’amore”.
La questione della letteratura russa apre diverse prospettive non solo letterarie. C’è sempre uno speculare filosofico che si intromette tra i linguaggi. Il percorso ortodosso ha una intensità che supera ogni forma di occidentalismo rituale nella letteratura. L’uomo è una dimensione dell’universale. La poesia non si strazia tra le parole, ma si logora nella storia sino a quando insiste il comunismo.
Si ascolta: “Occhi neri di ribes nero/come dense gocce della notte/guardano e inconsapevoli domandano/o di qualcuno o di qualcosa.//Caverà lesto il tordo saltellante gli occhi neri di ribes nero,/ma i gorghi del vortice conservano memoria/di qualcuno o di qualcosa.//Non penetrate nella memoria delle amate./Temete quei vortici abissali, perfino/la vecchia tua blusa, non di te si ricorda, ma/di qualcuno o di qualcosa.//E dopo morto vorrei onestamente sempre vivere/in te, come qualcuno no, come qualcosa,/che ti rammenti, linea d’orizzonte,/solo qualcosa, solo qualcosa”.
Il sottosuolo dell’inquieto è oltre Tolstoj. Solgenitsin è nel sottosuolo e recita il dramma di una civiltà e la tragedia di un popolo che ha saputo vivere sia l’ortodossia che la rivoluzione. Quella rivoluzione che ha visto culturalmente in Majakovskij il punto di riferimento. Resta il poeta centro lo sguardo attento di Esenin che è la vera tradizione di un linguaggio poetiche che è riuscito a fissare il legame tra la poesia tardo Ottocento e i risvolti di un Novecento degli anni di Pasternak.
La letteratura russa, comunque, non può prescindere dal tema del “Sottosuolo”. Generazioni poetiche che si intrecciano e si cercano. La poesia russa ha una antica tradizione. Nulla può essere cancellato, rinnegato, allontanato. L’arte è sempre la dichiarazione di in popolo e di una civiltà. Solo i popoli fragile, leggeri, poveri cercano di scardinare le culture robuste e si autosuicidono.
Una tradizione che rinnova costantemente: “Non credo nel miracolo./Non sono la neve, ne una stella,/e mai più sarò, mai, mai più.//E, peccatore che sono, penso:/chi dunque sono stato,nella mia vita precipitosa/che cosa ho amato più della vita?//Ho amato la Russia con tutto me stesso:/i suoi fiumi in piena e coperti di ghiaccio,//il respiro delle sue casette,/il respiro delle sue pinete,/il suo Puskin,/il suo Stenka/e i suoi vecchi”.
Proprio in questi versi Evtushenko recupera una tradizione del verso europeo e lo rinnova. D’altronde Puskin è uno scavo inevitabile e a volte impercettibile, ma profondo e in Evtushenko è presente. Era nato a Zima il 18 luglio del 1932. Un poeta che ha capito con ritardo la tragedia del realismo. Se Puskin è tale e Dostoevskij è lo scavo dei domini Tolstoj resta un conflitto perenne tra guerra e pace e Cekov nella ricerca dell’armonia vive l’inquieto. Ma Soleviev è un viaggio in una perenne inquisizione e Maiakoski è una terribile rivoluzione mancata. La grande Russia è l’immenso viaggio di una Russia grande.
Pierfranco Bruni