sabato 23 Novembre, 2024 - 6:35:22

Bruno Lauzi, a dieci anni dalla sconparsa

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Ero molto amico di Bruno Lauzi. Il mio libro su De André nel quale si parla anche di Luigi Tenco è un intrecciare discorsi con Bruno. I capitoli su Tenco nel mio successivo libro su Califano ha visto anche i suoi consigli. Quel Tenco mio raccontatomi anche da Bruno. Lo stretto legame tra poesia e percorso musicale nei testi di Bruno Lauzi ((nato ad Asmara l’8 agosto del 1937 e morto a Peschiera Borromeo il 24 ottobre 2006)) è dimostrato dagli incisi letterari (ed estetici) che permeano di lirismo la tensione del verso. Una profonda espressività che proviene da una scuola non solo musicale ma singolarmente letteraria. Il testo è chiaramente nel ritaglio della musicalità (e quindi di una ritmicità che offre modelli ben definiti) ma la stessa musicalità offre visioni e dimensioni poetiche.

La poesia porta dentro di sé già una accentuazione di ritmi perché è la parola che si contestualizza nel senso di una espressività di un quasi fenomeno ermetico.

Bruno Lauzi è come se giocasse con la parola e questo gioco diventa, il più delle volte, un incastro tra il recitato e il cantato. Il cantato è recitato e il linguaggio della parola (oltre certamente quello della musica) costituisce un elemento che si porta dietro una tradizione di classicità melodica abbastanza seria. Non dobbiamo dimenticare che Lauzi è in canzoni come “Lo straniero” cantata da Gorge Moustaki o in testi di straordinaria portata poetica e nostalgica come in “Quanto t’amo” cantata da Jonny Holliday o ancora nei versi travolgente e solo apparentemente riposanti come “L’appuntamento” cantata da Ornella Vanoni.

Cito solo queste testimonianze, oltre chiaramente al bagaglio suo personale, per tentare di definire la complessità di un autore che non si è mai discostato dalla poesia. Ma di poesia è fatto tutto il suo cammino. Ha pubblicato libri di versi attraverso i quali ha sottolineato l’importanza della comunicazione del canto e della parola che è sempre un raccontare le metafore di una esistenza. Di metafore è intrecciata la sua esperienza.

D’altronde Lauzi resta un riferimento di quella temperie che annovera nomi come Luigi Tenco e si è sempre confrontato con quei poeti veri che hanno saputo coniugare la parola e il battuto ritmico. Mi riferisco a un poeta come Vinicius De Moraes. Il tempo della poesia coincide sempre con la spazialità della musica. Ma è proprio il tempo un riferimento fondamentale nell’estetica del linguaggio recitato di Lauzi. Un tempo che si fa luogo e un luogo che vive dentro la stessa esperienza di esistere.

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Uno degli elementi significativi che si focalizza nell’attraversamento poetico di Lauzi è certamente l’ironia. Lo si può constatare sia dai libri di versi sia dalle “canzone” sia da un libro di racconti (che ci mostra un altro aspetto particolare di questo autore pregnante di valori semantici e segmenti letterari) che già dal titolo è emblematica l’ironia: “Il caso del pompelmo levigato” (Bompiani).

Non ci sono dubbi. Ha segnato una generazione di cantautori. E l’ha segnata partendo dai famosi persiche recitano: “Ora dicono che era un poeta/perché sapeva parlare d’amore/cosa importa se in fondo uno muore/e non può più parlare di te”. È la chiusa del testo dal titolo: “Il poeta”. Già da solo questo testo offre una precisa impalcatura poetica dentro la quale il tempo, la morte e l’amore sono una rappresentazione di una visione profondamente marcata di un esistenzialismo imperante negli anni in cui esplose la cosiddetta canzone d’autore. L’amore è quasi sempre, come già si diceva, amore – tempo.

Con Luigi Tenco condivise anche questa “realtà” di vivere la parola come lacerazione dell’anima. E anche un testo che si presenta con una semplicità estrema qual è “Ritornerai” ha nel suo interno delle motivazioni che incidono proprio sul quel rapporto appena detto. Amore – tempo è in “Ritornerai” una chiave di lettura che rompe con la canzone che occupava lo scenario negli anni Sessanta perché pur mostrandosi con una discreta “leggerezza” ha nel interno lo strascico di una malinconia che non abbandonerà mai il viaggio poetico e umano di Lauzi.

Versi come: “…scoprirai/che nulla è cambiato,/che sono restato/l’illuso di sempre./E riderai,/quel giorno riderai,/ma non potrai/lasciarmi più” non sono un volo di parole ma sono l’espressività di una esistenza e di un amore che occupa una vita. C’è malinconia ma anche una vera luce. Sono testi di luce, di chiarore, di nitidezza. La luce non è solo una metafora ma è come se esplodesse dal recitato e questa luce proietta immagini. Immagini che portano ad un sublime dei paesaggi. Tra queste immagini ci sono città, ci sono spiagge, ci sono infanzie vissute nei luoghi. Ancora l’incontro tra la memoria e il presente.

Sembra un raccontare: “Voi che ora passate sulla cresta dell’onda,/e che sfilate lungo la costa con le barche a vela,/che partite al mattino in gruppo sui velieri,/non sapete che qui tanti tanti anni fa c’era la nostra spiaggia,/la nostra spiaggia”. Sono gli ultimi versi de “La nostra spiaggia”. Ecco, dunque, lo spazio e questo spazio si avverte perché si respira nelle parole, perché si ascolta, appunto, tra un tassello e l’altro del mosaico vita. E i luoghi (da Genova in poi) sono ritagli di ricordi come nel testo “Vecchio paese”. Ricordi che cesellano una semplicità dell’essere nella grande dimensione del vivere.

Bruno Lauzi ha toccato le corde della comprensione – desertificazione del quotidiano su riferimenti che non sono storici ma necessariamente simbolici e allegorici. L’allegoria è l’altra misura con la quale la parola di Lauzi fa i conti. Come nel libro racconti citato. Racconti con personaggi. Qui c’è lo specchio di un sentimento del raccontare che si allontana dalle cose e dal precostituito e tutto mette in gioco. Non per caso in una paginetta (che sarebbe l’ultima anche se l’ultima è bianca con il titolo “Dice il lettore” lasciando la parola proprio a chi legge il libro e pregandolo, dal momento che è una pagina lasciata volutamente “sospesa”, di riempirla) dei racconti c’è una citazione di E. M. Cioran che dice: “Un libro che dopo aver demolito tutto non demolisce anche se stesso ci avrà esasperato invano”.

Una cesellatura che penetra i sostrati di un poeta che non ha mai dimenticato l’orizzonte e l’abbandono di una parola che è sempre tensione e viaggio nell’inquieto percorso dell’esistere: “E dicono che è giorno,/ma poi che giorno è?” (l’incipit di “E dicono”). Che giorno è? Prevertiavamente siamo tutti i giorni e siamo dentro i giorni. La parola è l’attesa che porta oltre. È su questo annotare che i linguaggi sono linguaggi di vita. In Bruno Lauzi.

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