Caro Gesù Bambino,
Ti scrivo dal silenzio di un’epoca che non ha più tempo, spirito e voglia di rivolgersi a Te. Quando Ti scrivevo erano gli anni Sessanta, e la lettera aveva fregi dorati che lasciavano frammenti di stelle sulla mia mano sinistra che, da mancino, copriva le parole appena scritte. Quei fregi d’oro erano sormontati da una finestra allusiva al cielo, piena di azzurro e gravida di Te. Erano i pensieri che un bambino rivolgeva a un Bambino, richieste di benedizioni e fortune sui suoi cari e su di sé, promesse rituali di bontà. Non dubitavo che tu fossi presente, se pur in quel presente magico ma vero che la mente del bambino vive come un mondo ulteriore e parallelo, soprannaturale. Eri invocato più come testimone e garante del mio affetto verso i genitori che come diretto destinatario. Ti avvertivo come presenza discreta, vicina ma remota, una specie regale di angelo custode che invoglia alla grazia e alla vita buona. Ma preferivo Te a quell’obeso pagliaccio di Babbo Natale che traffica in oggetti, non in affetti. Ho smesso da allora di rivolgermi a Te, passando prima ai Tuoi Genitori, poi ai Santi e all’Angelo custode, e infine affidandomi al silenzio, a volte a me stesso, a volte ad astratti e disincarnati principi. L’ho fatto un po’ per sfiducia, un po’ per discrezione, non so se reputarmi un credente, certo non sono un osservante. E comunque non vorrei importunare i cieli con le piccole cose del mondo, che sembrano grandi solo a noi che le viviamo e che piccoli siamo, anche a cinquant’anni passati. Non si può scomodare Dio per le nostre minute vicende del giorno, comprese le più dolorose; al più, meglio rivolgersi a una provvidenza minore, piccola e quasi domestica, mediata da santi e da segni, piuttosto che invocare nientemeno che il Figlio di Dio.
Per anni Ti chiesi soprattutto una cosa, che era la mia infantile ossessione e tale rimase negli anni: dar vita e salute ai miei genitori. Ero il quarto e ultimo figlio, a dieci anni di distanza dal penultimo, i miei genitori erano un po’ avanti negli anni, erano più anziani di quelli dei miei amici di scuola. E la mia ossessione era pensare al futuro, alla loro vecchiaia, alla loro morte. Calcolavo i miei vent’anni, poi i miei trent’anni e la loro età, e poi i miei quaranta paragonati ai loro ottanta passati, e disperavo di averli in età matura. Nei miei occhi di bambino c’era soprattutto il mitico Duemila, che temevo privato dei miei cari. E invece nel Natale del Duemila, nella processione in Tuo onore in casa mia, mia madre portava Te per le stanze e dietro di lei accanto a tutti noi suoi figli, ai nipoti, c’era anche mio padre. Noi con le candele accese, a cantare Tu scendi dalle stelle. Il rito c’illuminava d’incanto. Quel buio punteggiato dalle candele, quel calpestio domestico di nonni padri e figli, in corteo come un albero genealogico dal vivo, quelle voci stonate e vere, quelle stanze visitate in una luce piccola e speciale che donava un alone di magia alle cose consuete, quella famiglia intera che docilmente interrompeva il travaglio quotidiano per seguire con dolce demenza Te, il Bambinello. Mi parve un miracolo quella mezzanotte del Duemila quando mia madre baciò mio padre per gli auguri. Hai visto, pensavo commosso di gioia, tu che temevi per il Duemila, li hai avuti con te nel Passaggio, al giro di boa del millennio. Vecchi, un po’ malandati, ma vivi e presenti nel corpo e nella mente. Lo scrissi anche in un libro, che intitolai non a caso Di padre in figlio. Si era avverata la speranza di tanti anni, in letterine impolverate d’oro e d’azzurro. Tu esaudisti quella promessa e io Ti sorrisi di gratitudine quella notte. Ora che ho perso da alcuni anni mia madre e mio padre, penso a quella processione domestica decapitata dei suoi decani, a quel viaggio lento e fatale nelle stanze buie del destino. La Nascita avverrà in un Vuoto, non solo quello di un padre e di una madre. Ma i ricordi sono le sole dolcezze che non fanno crescere il diabete, che è poi il vero albero di Natale.
Le letterine a Gesù Bambino sono sempre questuanti, come è giusto e umano, naturale e soprannaturale; le lettere chiedono sempre qualcosa sibi et suis oppure urbi et orbi. Di solito le lettere pubbliche invocano la pace e l’amore nel mondo, quelle private si occupano della salute e delle grazie per la famiglia. Di entrambi, si sa, abbiamo bisogno, a parte gli abusi retorici intorno alla pace, alla miseria e alla fratellanza o gli abusi egoistici del familismo terreno.
A me basterebbe avvertire che non siamo soli, che il mondo non finisce qui, che la vita non finisce tutta qui, che non dobbiamo giocarcela come un’occasione golosa e assoluta, perché è una sola e poi non c’è nulla. Non chiedo di migliorare le cose della vita e del mondo, non chiedo quel che tutti vorremmo chiederTi in salute, gioie, ricchezze, successi. La perfezione non è di questo mondo e la salvezza, in fondo, non appartiene alla storia. Le strade del tempo non portano all’eternità; al più ne sono un presagio, un viatico, o come disse Platone, l’immagine mobile dell’eterno; l’immagine, non la via. Piuttosto aiutaci a dare un senso, una prospettiva al nostro esistere. A farci capire che non siamo all’ultima spiaggia, oltre la quale c’è il Niente e il Caos. A far rinascere in noi lo stupore infantile, Tu che sei Bambino, la meraviglia di esistere, di conoscere e di sapere che c’è un’altra dimensione oltre quella momentanea. Lo stupore del sacro. Aiutaci a capire che la Vita non finisce qui, che non è tutta compresa in queste pareti corporali, temporali e mondane; che ci sono segni, aperture, spiragli oltre il vivere, il fare, il correre e il trascorrere. Vorrei sapere Tuo tramite che ci sono altre beatitudini oltre i paradisi in terra, che spesso sono anticamere degli inferni; vorrei che non fossimo galleggianti nel vuoto e nel nulla, come accade di percepire nelle rare pause del vivere.
Per questo Ti chiedo una mano, fosse anche solo una mano benedicente, per lenire la disperazione quotidiana, la nostra vita sovrabbondante ma infondata, ricca di comfort, sempre calanti, ma interiormente sconfortata, incline alla follìa e all’angoscia, gremita di distrazioni e astrazioni ma priva di senso, disposta al male di vivere pur vivendo meglio di ogni altra generazione. Aiutaci, se non a rinascere, almeno a non morire prima di morire.
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