Ciraulari, cerauli, cirauli, ciarauli sono nella tradizione popolare del meridione, e specialmente (con questi nomi) in Calabria e Sicilia, una sorta di maghi-guaritori-incantatori-indovini, specializzati nel curare dal morso di serpenti o domare serpenti e scorpioni. Spesso queste loro doti sono ritenute correlate all’esser nati in una notte particolare, tra il 24 e il 25 gennaio o secondo altri tra il 28 e il 29 giugno. Alessandro Italia, studioso di Palazzolo Acreide (Siracusa), vissuto tra fine Ottocento e inizi Novecento, scriveva:
“abbiamo visto il ceraulo, dalla lunga berretta con avvolte le trasparenti guaine che le serpi lasciano mutando la pelle; recare nel petto grosse serpi che gli circolavano sotto la camicia e vivificate dal calore della sua persona si affacciavano dallo sparato a suggere dalla sua bocca la saliva”.[1]
Si riteneva che i cerauli potessero predire il futuro, curare con la saliva i morsi di insetti, ragni e altri animali velenosi, ammansire i serpenti. Erano considerati i discendenti di San Paolo, considerato il primo ciraulu, il quale, si narra negli Atti degli Apostoli, si sia salvato dal morso di una vipera. Scrive il Pitrè (riporto per intero la sua trattazione sul tema):
“Ciràulu o Ciaràulu è voce puramente greca: Keraules, che vale suonatore di tromba, trombettiere, si dà a colui che nacque nella notte del 29 giugno, o in quella dal 24 al 25 gennaio, commemorazioni di S. Paolo apostolo. Narrano gli Atti degli Apostoli, che recatosi San Paolo in Malta, venne assalito da una vipera mentre egli metteva della legna sul fuoco, e che attaccataglisi questa al dito non gli fece nessun male. Da questo racconto è nata la credenza, diffusa in tutta la Sicilia e fuori, che chi nasce in una di quelle due notti abbia virtù straordinarie. Egli è forte e prosperoso, maneggia innocuamente per lui e per gli altri la vipera, l’aspide, la biscia, il calabrone, lo scorpione, il rospo, il ragno ed altri rettili ed insetti velenosi e, come sicuro del fatto suo, se li attorciglia disinvolto alle braccia e alle mani, se li ripone in seno senza altro effetto che quello di avere sbavate le carni. Per facoltà ricevuta dal Santo egli libera da’ pericoli di questi animali solo ungendo un po’ della sua saliva sul morso avvelenato o passandovi sopra la lingua; sotto la quale egli ha, dicono, un muscoletto in forma di ragno, che non hanno gli altri uomini (ma che difatti è una o ambedue le vene ranine, più rilevate dell’ordinario). In un grado più eminente di potenza il Ciraulo ha una figura di ragno o di rettile nella polpa dell’avambraccio. Qualche volta non solamente la saliva, ma anche la mano del Ciraulo è dotata di quell’alta virtù: anzi la presenza o il transito di lui, ed anche la sua abitazione vicina o di prospetto, giova si che il veleno inoculato non torni a male. Une verga che egli batta per terra basta a ciarmare qualunque animale.
Il Ciarmu fatto dal Ciraulo è accompagnato da preghiere e da segni incomunicabili agli altri: lo stesso è del ciarmu de’ vermini operato sui fanciulli che soffrono dolor di ventre, dove però si accompagna lo strofinio dell’addome per mano del Ciraulo, che mormora preghiere ininteligibili. Un poeta drammatico siciliano del cinquecento ricordava così la potenza mirabile de’ carmi de’ Cirauli:
Li pigghianu cu ciarmi li Cirauli, Scursuni vecchi cu tutti li spogghi.
Tuttavia non vuolsi dimenticare che la miglior mediina è la preservativa; ed ecco la necesità del seguente scongiuro per preservarsi dalle morsicature velenose, per vedere restare legato o incantato il rettile:
“San Paulu, Lu primu ciràulu, Attaccatimi a chistu, Pri lu sangu di Cristu; Attaccatilu beddu attaccati!, Com’un canuzzu marturiatu”
o del seguente altro:
“San Paulu, Ciaràulu, Ammazza a chissu, Ca è nnimicu di Diu, E sarva a mia, Ca su figghiu di Maria.”
Altra grande virtù del Ciraulo è quella di indovinar il futuro, di predire le cose avvenire proprio come fa l’altro essere, egualmente previlegiato, detto vinnirinu nato cioè in un giorno di venerdì, col quale ha in comune la facoltà di saper combattere vincendo il lupunàriu, ossia il licantropo, di saper talvolta predire il tempo della morte d’una persona. Per via di questa divinazione il Ciraulo esercita una grande influenza sulla credula genterella, che a lui ricorre come ad oracolo infallibile e insieme temuto; giacche non senza una indefinita paura i popolani s’accostano a questi uomini, misteriosi nella fantasia del volgo.
Quando ad una nostra previsione segue, conforme al nostro avviso, un fatto, noi Siciliani, soddisfatti di aver indovinato, esclamiamo: E chi fui ciaràulu! quasi per dire: Oh che fui profeta? Ciraulo poi intendiamo un uomo che abbia sùbita percezione e facilità d’intendere, di parlare, di fare; laonde l’indovinamento del futuro sarebbe conseguenza, significazione diretta della parola.
E poiché il Ciraulo come indovino e come psillo si è qualche volta identificato con S. Paolo suo protettore e dio, e l’indovino è qualche cosa di singolare per potenza sulle cose terrene, così il popolo lo ha anteposto a Salomone, personificazione popolare della Sapienza; e crede che
Cu San Paulu nun cci pò re Salamuni,
cioè che il dotto non può vincerla sull’indovino. Nella qualità d’indovino il Ciraulo è quello che italianamente dicesi ciurmadore, e in siculo-calabrese scursunaru, dalla virtù che egli pretende di avere o che gli si attribuisce di incantar le serpi e gli scursuna; ma guardiamoci bene dal confonderlo con l’ Addimina-vinturi (indovina-venture), mestiere che il volgo apprezza per quel che è: privo della sovrumana potenza e del prestigio che gode il protetto di S. Paolo.
Il mio buon amico Corrado Avolio ha scritto due pagine sui Cirauli come ciurmadori: ed io le fo mie con qualche riserva, per la distinzione che sarebbe da fare de’ Cirauli operatori di prodigi, e de’ Cirauli ciurmadori, da lui specialmente descritti.
«I Cirauli, come gli zingari, percorrono le città siciliane; quivi aprono sulle piazze alla curiosità dei fanciulli un armadio, zeppo di immagini di santi, che è una tenerezza a vederle. C’è una madonna, dice il iciurmadore, la quale ha pianto; un Ecce-homo, il quale diede un manrovescio ad un eretico, che gli rideva dinanzi; un S. Francesco di Paola, il quale alzò il bastone sopra un ragazzo che faceva discolerie. I fanciulli accorsi allo spettacolo stan cheti come olio; perchè tutti si vedono guardati dagli occhioni di quelle figure, e temono che non stiano abbastanza fermi. Il ciaraulo trae quindi un serpente da una bottiglia, gli recita nell’orecchio alcune formule, e se ne fa ora un braccialetto, ora una collana. La meraviglia è generale; ed egli profitta di quel momento, per far girare attorno la secchiolina. È un mestiere come un altro. Ma non è in città che dispiegano tutta la loro impostura questi parassiti sociali. Le loro scorrerie più lucrose le fanno in campagna. Un asinello sul quale si
può studiare l’osteologia, caricato del sacro armadio; una mezze serqua di figli, laidi per deformità ereditaria e per abituale succidume; una donna dai lerci denti e dalla veste untuosa e a brandelli; ecco i compagni del frappatore divoto, che va dalla fattoria del grosso proprietario alla casupola del contadino. Con quello sguardo profondo e quei lunghi capelli che fan cernecchie sulle tempia, egli ne ha d’avanzo per esser creduto uno stregone, e un di loro si conosce di lontan mille miglia. Questi
buoni campagnuoli, che son semplici come fanciulli, gli danno una misura di frumento o di legumi; non perchè egli abbia prestato loro un servizio, ma perchè temono che, disgustato, faccia piovere la gragnuola sul loro campo e la formica sulle fave, credendolo financo capace di scatenare i venti come Eolo, e i malanni come Pandora. In compenso han ricevuto un’immagine di S. Paolo, che par fatta col carbone; mostruosa figura dagli occhioni spavaldi e minacciosi, dall’immane spadone al fianco, e dai mille serpenti, draghi e colubri striscianti ai suoi piedi e ai suoi fianchi, quasi che l’apostolo fosse vissuto nel periodo carbonifero. I contadini affiggono quella immagine nella botte che ha dato sempre vino spunto o cercone; o su quegli alberi che, per cattiva coltura, fioriscono due volte il secolo, come il Latano ».
Evidentemente l’Avolio guarda dal lato sociale la vita de’ Cirauli, che io per ragione de’ presenti studi guardo più dal lato mitologico. Ed io vedo in queste persone una filiazione vivente de’ sacerdoti greci del dio Sabazio e de’ Psilli dei dintorni di Pario, de’ quali ragiona Plinio; e ne’ serpenti, che dalle opere di essi non si scompagnano mai, un elemento delle forze telluriche, delle potenze demoniache del mondo sotterraneo.
Se si torna un po’ indietro nei secoli si può incontrare questi esseri, e vederli tuttavia stimati e rispettati in privato e in pubblico. Le antiche Pandette protomedicali di Sicilia riconoscevano le opere loro prodigiose e sottraevano essi a qualsivoglia vigilanza ufficiale, solo perche il poter loro promanava direttamente da S. Paolo. Cirauli si addimandavano ab antico nel quattrocento; Cirauli
nei secoli posteriori; e si ritenne siffatto potere, in origine individuale, esser diventato previlegio gentilizio li certe famiglie, i cui membri per lungo volger di secoli poterono tener fronte a rettili, ad insetti, ad ascaridi a licantropi. I vari casati del cognome di Cerauli che in Sicilia non son pochi, non avrebbero altrimenti avute questo cognome che come un soprannome onorifico e come un titolo di prerogativa: il che sarebbe, seconde il parroco Alessi, una grazia di Dio simile a quella concessa ai re di Francia, di sanare la scrofula. Uno scrittore siciliano di Castiglione più volte citato, nel 1556 e ragguagliò di uno di codesti casati privilegiati in Bronte, « dove maravigliosamente è una famiglia cognominata dai paesani delli Charedi (quasi delle Ceraste, che sono spezie di serpi), nella quale così le femine mentre sono vergini, come li maschi, hanno virtualmente dalla natura autorità e potestà contr’ogni velenosa sorta di serpi ed altri animali tossicosi e mortifere fiere, le cui morsicature guariscono solamente col segno della croce e con lo sputo; ed io n’ho vedute infinite esperienze. Essi dicono essere della casa di S. Angelo. Simile virtù ho io veduto aver coloro che nascono la notte della Conversione di S. Paolo apostolo a 25 gennaio, cioè la notte della vigilia, dopo la quale segue il giorno della festa ».
Più tardi, nel 1653, Niccolò Serpetro da Raccuia nel Messinese in un lihro scritto in Sicilia e stampato in Venezia, dicea: «Vivono sino al dì d’oggi in Militello di Sicilia, terra posta nella valle di Noto, alcuni d’una famiglia detta de’ Cirauli, ne’ maschi e femine della quale per molti secoli s’è andata trasfondendo una meravigliosa virtù di guarire, non solo col tatto, con lo sputo e con le parole, ma ancora con la immaginazione, tutti i morsi velenosi d’ogni sorte e di far morire ogni spezie di velenati, quanto si voglia lontani. E quello che è più di stupore: le donne estranee che vengono ingravidate da i maschi di questa famiglia, per il tempo che sono gravide, acquistano la medesima virtù, e scaricate che sono la perdono trasfondendola ne’ figli; dove per il contrario le don- ne di questa famiglia, che sono ingravidate da maschi estranei, essendo gravide perdono le virtù, ma dopo il parto la riacquistano, ne’ mai la trasfondono ne’ figli. Per che ella fu solamente concessa al seme dei maschi dal sommo Dio».
A tanti e sì curiosi particolari su’ Cirauli in Militello se ne può aggiungere degli altri su’ Cirauli di S. Filippo d’Argiro, dove i maschi e le femmine di una famiglia di questo nome conosciuta dal P. Bonaventura Attard agirino e da tutti i suoi concittadini avean la virtù contro il veleno dei serpenti, poiché toccavano appena con la saliva le morsicature che risanavan gli infermi addentati. « Anzi i Cirauli lontani, in una distanza, col disseccamento della saliva in bocca, conoscevano il vicin arrivo de’ morsicati. Le donne però di tal famiglia possidevano tal virtù in stato verginale; e passate a stato di matrimonio perdevano tal virtù ». Egli stesso, l’ Attard aggiunge che « tanto in Palermo quanto in Siracusa, in Noto, od in Foligno, ritrovansi queste persone, o famiglie, che hanno ottenuta da Dio a riflesso dei meriti da S. Paolo questa grazia, e non aver contro serpenti quell’orrore, ch’hanno gli altri. Li maneggiano senza timor e li trattano senza offesa. Ed io ch’ho parlato qui in Palermo con una signora sorella di un mio confratello religioso, chiamata signora Paola, nata la notte della conversione di San. Paolo a 25 gennaro, m’ha confessata tal dimestichezza, e di non aver de’ serpi nessuno orrore, anzi m’aggiunse d’averla pratticata questa virtù, e portarne sotto la lingua un ragno per contrassegno. Si sa altresì che come medici de’ morsicati i Cirauli fecevano uso di una terra o pietra di S. Paolo portata da Malta, la quale essi somministravano per bocca o ponevano sopra il morso delle scorzone ».
Ma la città santa de’ Cirauli di nome e di fatto fu sempre ed è Palazzolo-Acreide nella provincia di
Siracusa. Quivi i Cirauli più famosi hanno stanza e dominio, e quivi vegono richiesti dell’opera loro prodigiosa. Nella processione che si fa in onore di S. Paolo in Palazzolo i Cirauli sogliono recare sulle guantiere scordoni neri e vipere innocue: e se qualche sconsigliato devoto, dopo aver promesso al Santo un’offerta, indugia a presentargliela, uno scorsone nero o un insetto non tarderà a farsi trovare sotto il guanciale o in un cantuccio qualunque della casa di lui.
Il vago accenno dell’Attardi su coloro che han ricevuto varie facoltà terapeutiche ci richiama a nomi ed a famiglie dell’Isola e di fuori aventi la virtù di guarire certe malattie speciali. Nei secoli scorsi i Potenzani operavano miracoli in ammalati creduti incurabili dai medici e fu scritto nel sec. XVII che «D. Giovanni Agliata giostrandosi nel piano del Palagio (in Palermo) con D. Carlo d’Aragona, duca di Terranova, gli ruppe l’arnese e lo ferì nel lato sinistro; per la qual ferita fu il duca per lasciarvi la vita, ma finalmente guarì per mano d’un de’ Potenzani, che facea professione di medicare con l’orazione, e lana ed olio, essendo stato (il Duca) disperato dai medici ». Ai dì nostri si credono dotati della medesima virtù i Grassellini di Marsala per le empetiggini, e i Vulcani di Sorrento per le slogature, i Cancelli del villaggio di questo nome presso Foligno per le sciatiche, e molti altri casati celebri oramai nella tradizione popolare .
Con qualche qualità di più e qualche attributo di meno i Cirauli furono e sono in Calabria, in Terra
d’Otranto e più in là ancora; ma a misura che lasciane l’Italia meridionale, essi mutando nome mutano in parte costume, e perdono l’aureola di gloriosa e mirafica potenza che ebbero, per diventare i ciurmadori, i ciarlatani, gl’incantatori, i circumforanei, i circulatores rimasti celebri nelle opere di Martino del Rio, di Cesio, di Scipione Mercuri, di Q. M. Corrado e di cento altri antichi e moderni, italiani e stranieri.”[2]
Paolo Gilberto, “ciaraulu” di Palazzolo Acreide (SR). Immagine tratta dall’articolo “Dalla terra dei santoni” [3]
Il ciraulo, dunque, è una sorta di “stregone” specializzato nel curare con la sua saliva (o anche con il “soffio”) punture e morsi di vari animali più o meno velenosi, nell’ammansire i rettili, nel predire il futuro, ed è considerato discendente spirituale di S. Paolo.[4]
Il termine è usato in Sicilia, come in Calabria, dove oltre che “ciraulu” è detto anche ceravularu, ciravularu, ciarmularu, cursonaru, sampavularu. Questi termini sono usati anche per designare una persona ciarlona o, anche, sinonimi di “diavolo”.[5]
Nel materano, “ciarallo” è “il settimo figlio”, “può essere sia maschio che femmina”, è “incantatore di serpenti e sa togliere fatture”, viene al mondo “con una serpe sotto la lingua”.[6]
Nel Potentino, si ritrova il termine “giaravuli”, che sono spiriti e “malombre” che appaiono a controra, assalgono e rapiscono i bambini, li divorano o ne succhiano il sangue.[7]
Il termine “ciaravulu” per designare l’incantatore di serpenti si ritrova anche in Campania, in Abruzzo “ciarallo”, mentre “ceraldo” è attestato, ad esempio, in Toscana,[8] ma come vedremo più avanti anche in Puglia, nel tarantino.
In Puglia, queste figure sono dette “sanpaolari”, o anche “carmati di San Paolo”[9] e “ceramati”.[10] In quest’ultimo termine, “carmato” o “ceramato”, ritroviamo una affinità con il “ciarmularu” calabrese. Difatti, l’antico termine dialettale “carma” (carme) sta per “incanto”, “parola magica”, e deriva a sua volta dal latino carmĕn (con le sue molteplici accezioni che vanno da “orazione” a “incantesimo”[11]). “Ciarmatore”, “ciurmatore” in tutta la penisola indicava anche il ciarlatano, l’imbroglione, tuttavia anche in questo caso il più antico significato di “ciurmare” era quello di “operare incantesimi”, “preparare farmaci contro i veleni”. Del resto, gli stessi sanpaolari, secondo fonti pervenuteci a partire dal XVI secolo, erano avvolti da una immagine negativa: venivano descritti in genere come ciarlatani, imbroglioni, truffatori.[12]
Dei sanpaolari salentini parla il De Martino, scrivendo:
“D’altra parte proprio nella seconda metà del ‘700, come fu illustrato altrove, ebbe luogo il più diretto controllo del culto di S. Paolo su tarantismo salentino, e la trasformazione della casa di S. Paolo nella cappella di Galatina. Prima di tale sistemazione molto dovevano contare presso le plebi rustiche i famosi sanpaolari, che, come vedemmo, anfavano in giro per le fiere ed effettuavano terapie magiche vantando di appartenere alla casa di S. Paolo. Nel suo De gli errori popolari d’Italia il filosofo, medico e cittadino romano Scipione Mercuri si diffonde a lungo su questi guaritori «per lo più pugliesi di Lecce, o d’altri luoghi circonvicini, quali forse discesero da’ Marsi, che al tempo di Galeno eran ciarlatani, i quali per testimonio di Plinio ebbero la loro origine da Marso figlio di Circe». A quanto riferisce il Mercuri, i sanpaolari fra l’altro spacciavano come buona contro i morsi degli animali velenosi la cosiddetta «Terra di Malta», equivalente a quella famosissima «Terra Lemnia» o «Terra sigillata» che continuò ad essere inclusa nelle farmacopee addirittura sino al 1848. Non già che il Mercuri, da quel pio uomo che era, osasse negare l’efficacia della «Terra di Malta» che traeva la sua virtù «da lo miracolo occorso a S. Paolo», uscito indenne dall’assalto dell’echidna durante il suo soggiorno nell’isola mediterranea. L’abuso dei sanpaolari consisteva sullo spacciare per Terra di Malta ciò che non lo era, onde per evitare le contraffazioni il Mercuri propone di apporre alla Terra di malta un sigillo analogo a quello della Terra Lemnia […]. Non sappiamo se il suggerimento del Mercuri fu accolto da chi di ragione ma certo è che la quistione dei sanpaolari doveva a quel tempo aver rilievo in Puglia, onde il clero locale, sotto lo stimolo della situazione, ricorse ad un molto più valido «sigillo» o «brevetto» che si dica, quello della cappella di Galatina, che da ora in poi avrebbe vantaggiosamente sostenuto la concorrenza dei sanpaolari girovaghi, avocando a sé e ponendo sotto il controllo del clero gli «avvelenati» dagli «animali di S. Paolo», e particolarmente i «tarantati».[13]
Va detto che il termine sanpaolari per designare i maghi serpentari pugliesi appare più recente rispetto a definizioni più antiche come pauliani, ceraldi (termine attestato anche a Taranto nel 1600), cerratani, ceramati, carmati.[14]
Intorno ai sanpaolari salentini che giravano per le fiere offrendo medicamenti contro il morso di tarantole e altri animali velenosi, si trovano scritti e descrizioni in abbondanza, anche in rete, perciò non mi soffermerò nella rievocazione di questa usanza, se non per ricordare qui brevemente che la loro presenza, sebbene progressivamente diminuita nel tempo, poteva essere registrata nei paesi salentini, in occasione delle feste dei santi più importanti, anche a fine annni ’60.
Una descrizione dei “ceramati” pugliesi, si ritrova in uno scritto del 1888 di Luigi Chiaia, il quale racconta una serie di aneddoti intorno ad un personaggio dei suoi tempi detto Piedigru che, appunto da ceramato aveva il potere di incantare le serpi. Piedigru racconta che da giovanetto andò a San Paolo di Civitate (Foggia) e là fu iniziato come ceramato nientemeno che dal sacerdote della chiesa dedicata al santo. Vi era un pozzo in cui dimoravano le serpi: il sacerdote, dopo aver asperso il giovane con l’acqua santa, gli fece calare la mano destra in fondo al pozzo. E, così:
“… i feroci inquilini azzannarono l’intruso, e ne spicciò sangue: d’allora miracolosamente gli venne il dono de l’invulnerabilità da qualunque rettile, e la facoltà di comandar le vipere e i serpentacci, intimando loro lo sgombero da’ propri covi e il trasloco da una in altra residenza; la facoltà di prenderli vivi, maneggiarli, mansuetarli come colombe e pollastri: a confronto di ogni facoltà acquisita seguivan da dieci a dodici esempligratia. Inoltre aveva ricevuto dal sacerdote di colà una preziosissima pietra detta del veleno, mercè cui si tira per incanto il veleno inoculato da’ rettili, a solo poggiarla su la piaga”.[15]
Il racconto di Piedigru prosegue con la spiegazione di come fa a chiamare a sé le serpi. Il sacerdote gli aveva insegnato quattordici parole segrete, che da allora il ceramato ripete ogni volta che intenda attirare gli animali:
“… m’inginocchio e dico le quattordici parole, che m’imparò il sacerdote di S. Paolo, e poi fischio e se ne vengono… stessero anche lontani un kilometro…”[16]
Il Pedigru conclude precisando che ceramato è colui che “comanda i serpi”.
A questo punto il Chiaia si interroga sull’origine della tradizione dei maghi incantatori di serpenti. Così, ricorda che “i primi fascinatori di serpenti” sono stati i Cabiri, figure mitologiche della antica Grecia spesso raffigurate mentre afferrano serpenti. Ricorda poi come il serpente sia presente nella simbologia e nel rito di diversi culti pagani, e la figura di Pitone antico custode dell’ Oracolo di Delfi (al quale succede Apollo che, impossessatosi dell’oracolo, conserva il culto e l’istituzione con la figura della sacerdotessa Pizia, colei che dava i responsi nel santuario). Ancora, menziona la mitica famiglia asiatica degli Ofiogeni, i cui componenti si riteneva avessero la capacità di rendere innocui i rettili, incantarli e scacciarli da case e campi, guarire la gente dai loro morsi; gli Psilli della Cirenaica, noti come incantatori di serpenti (ne parla Plinio nella sua Historia Naturalis descrivendoli come dotati sin dalla nascita di un veleno capace di ipnotizzare e uccidere i serpenti).
Il Chiaia continua ricordando i Telchini, demoni-stregoni della mitologia greca capaci di fascinare con lo sguardo uomini e animali, e spesso raffigurati con la parte inferiore del corpo a forma di serpente; il popolo italico dei Marsi, stregoni, guaritori e incantatori di serpenti, i Peligni adoratori (come i Marsi) di Angizia, dea associata al culto dei serpenti.
Verso la fine del resoconto, racconta dell’ultimo incontro avuto con il Piedigru: il ceramato foggiano se l’era vista brutta, poiché durante l’esercizio delle sue “funzioni”, ovvero chiamato da un tale che aveva trovato in casa un grosso colubro, nel tentativo di ammansirlo era stato morsicato, e si ammalò in seguito all’attacco di quel rettile per non guarire che dopo un mese. Come mai questa volta le arti del ceramato non avevano funzionato? Il Pedigro spiega al Chiaia che in questo caso si trattava di un serpente particolare, il più pericoloso e resistente in quanto “figlio di gallo”:
“Non sapete che il gallo a sett’anni fa l’ovo? Lo cova e n’esce il serpente più velenoso che ci sia al mondo, che resiste anche a S. Paolo in persona con tutte le chiavi…”[17]
Le conclusioni dello studioso ottocentesco sono che il potere incantatore dei ceramati è dato in particolare dal fischio, dall’arte appresa di emettere suoni modulati e cadenzati che immobilizzerebbero i rettili.
Qui, fermo anch’io la mia esposizione sulle fonti etnografiche che riferiscono di cirauli, ceramati, sanpaolari ecc., non prima, però, di annotare alcuni fatti in tema, collegati alla tradizione specifica dei nostri paesi. Il primo, è che ancor oggi, negli ambienti in cui vi sono residui delle antiche credenze popolari e contadine, si può sentir dire che le persone che riescono senza timore alcuno a prendere in mano serpenti o avvolgerseli intorno al proprio corpo, sono individui dotati di abilità magiche e di particolari poteri, e la stessa confidenzialità con i rettili è un segno di potere. Un po’, insomma, come ciò che è eloquentemente simboleggiato dalla dea cretese dei serpenti, una figura assai ricorrente nella scultura minoica di un millennio e mezzo avanti Cristo.
Un’altra osservazione da fare riguarda la già citata analogia tra i nostri maghi serpentari, le capacità loro attribuite di indovini, e le figure oracolari del Pitone e della Pizia di Delfi. Ricordo bene di un racconto, del quale non ho però riscontro in altre narrazioni o resoconti etnografici. Quando negli anni ’90 decisi di trasferirmi definitivamente in campagna, ebbi un “cantiere aperto” per parecchio tempo, con diversi operai del mio paese e dei dintorni da me chiamati e avvicendatisi per una serie di lavori: dovevo rimettere a posto la casa, il terreno, i muretti a secco che lo recintavano, tutto l’ambiente nel quale avevo deciso di vivere. Alla vista di una vecchia “pisàra” (le pietre scolpite e forate che venivano anticamente utilizzate per la trebbiatura) uno di questi disse: “se incastri nel buco di quella pietra un serpente, il serpente ti parla”. La buffa uscita dell’operaio suscitò in me ilarità, e comunque gli chiesi “cosa vuoi dire?”. Mi rispose che aveva sentito dire da alcuni anziani di paese che era in uso, da parte dei nostri “masciàri”, utilizzare il serpente a fini oracolari. La testa di una grossa “serpe” veniva incastrata, inserendo il serpente all’indietro, partendo dalla coda, nel buco della pisàra o di pietra forata similare, e trattenendo l’animale per la coda nel caso avesse provato a balzar fuori protendendosi in avanti. Ovviamente, il foro doveva essere abbastanza stretto da incastrare la parte superiore del rettile. Il serpente si sarebbe così dimenato aprendo la bocca ed emettendo suoni, come se parlasse. Non ho mai ritrovato, ribadisco, un racconto simile, dunque non ho un metro per poter affermare se si trattasse davvero di una pratica in uso o se la cosa fosse una fantasiosa invenzione dell’operaio o di chi aveva potuto raccontargliela. Egualmente suggestiva, in tal caso, in quanto comunque rimanda al paragone con rituali oracolari nei quali a partire dai più antichi miti sono presenti i serpenti.
- Citazione tratta da http://www.sanpaolopalazzolo.it/la-tradizione-dei-ciarauli.html ↑
- Giuseppe Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Vol. 4, Barbera Editore, Firenze, 1944, pp. 224-236 ↑
- Nello Blancato, Dalla terra dei santoni http://nelloblancato.blogspot.com/2011/06/paolo-giliberto-ossia-paulu-u-ciaraulu.html ↑
- Vedi anche Sebastiano Rizza, Orazioni, incantesimi e santi guaritori, Sicilia Dialetto cultura e tradizioni popolari http://digilander.libero.it/sicilia.cultura/orazioni2.pdf ↑
- Sebastiano Rizza, L’antico mestiere del ciaraulu, Prospettive Siracusa, anno XI, n.3, maggio 1992, pag. 39 ↑
- Sebastiano Rizza, L’antico mestiere del ciaraulu, Prospettive Siracusa, anno XI, n.3, maggio 1992, pag. 39 ↑
- Ibidem ↑
- ibidem ↑
- Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Origine e discendenza dei carmati ti Santu Paulu, in “Tre santi e una campagna, Culti Magico religiosi nel Salento di fine Ottocento, Laterza, 1994, pp. 27-36 (vedi anche https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/30/origine-e-discendenza-dei-carmati-ti-santu-paulu/ ) ↑
- Luigi Chiaia, Pregiudizi pugliesi – I serpi di S. Paolo, in “Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere ed Arti”, Trani, gennaio 1888, n. 1, pag. 122. Il Chiaia utilizza lo pseudonimo di “Brundusium” in questi suoi scritti ↑
- Carme, canto, preghiera, predizione, vaticinio, oracolo, responso, incantesimo, formula magica ↑
- Diana Del Mastro, Il tarantismo ed il culto di San Paolo nel viaggio etnografico di Ernesto De Martino, Colloquia Theologica Ottoniana 2/2012, Wydawnictwo Naukowe Uniwersytetu Szczecińskiego, pag. 160 ↑
- Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net Nuove Edizioni Tascabili, 2002, pp. 255-256 (1a ed. Il saggiatore, Milano, 1961) ↑
- Vito Luigi Castrignanò, “Ceraldi” e “sanpaolari”. Considerazioni sul lessico del tarantismo, in “L’Italia dialettale, Rivista di dialettologia italiana, Volume LXXX, Edizioni Ets, Pisa, 2019, pp. 421-431 (secondo il Castrignanò il termine specifico sanpaolari è coniato addirittura dallo stesso De Martino). Vedi anche Giulietta Livraghi Verdesca Zain, Origine e discendenza dei carmati ti Santu Paulu, in “Tre santi e una campagna, Culti Magico religiosi nel Salento di fine Ottocento, Laterza, 1994, pp. 27-36. ↑
- Luigi Chiaia, op. cit., pag. 121 ↑
- ibidem ↑
- Luigi Chiaia, op. cit., pag. 123 ↑