Correva l’anno 1630 quando la peste si scatenò nel Nord della penisola italiana. L’epidemia, originata da una ondata di carestia, si manifestò tra il 1628 e il 1629. Nel maggio 1630 sembrò essere stata sconfitta e invece, il mese successivo, si ripresentò in maniera ancora più violenta, mietendo migliaia di vittime. L’isolamento dell’area colpita causò una difficoltà di approvvigionamento dei generi di prima necessità. Lo stato di trascuratezza con cui venivano assistiti i malati provocò l’aumento dell’epidemia. Le persone che giungevano ai porti con le navi venivano sottoposte ad un periodo di quarantena e in alcuni casi messe al rogo. L’assistenza ai malati, ricoverati in appositi lazzaretti, veniva fornita dal personale sanitario che indossava una speciale tunica lunga ed incerata, nonché una maschera con occhiali e fornita di un lungo becco contenente sostanze capaci di frenare il contagio. La disinfezione degli oggetti e degli indumenti appartenenti agli appestati veniva effettuata mediante l’immersione di questi in un bagno di aceto. Anche allora non mancavano gli imbroglioni e i ciarlatani che vendevano preparati ed unguenti miracolosi di loro invenzione, arricchendosi sulle disgrazie della povera gente. La storia non si ripete, ma gli impostori sì!
Nel 1656 una nuova epidemia, proveniente verosimilmente dalla Sardegna, colpì il Regno di Napoli. Nella sola capitale, che all’epoca contava 450 mila abitanti, provocò 240 mila vittime, mentre nelle restanti province si registrò un tasso di mortalità oscillante fra il 50 ed il 60% della popolazione. Lo storico della Terra d’Otranto Pietro Palumbo (Francavilla Fontana, 1839-1915), in Storia di Lecce, Congedo Editore, Galatina, 1996, ci racconta che “Fu tanto il numero dei colpiti che le vie della città erano cosparse di cadaveri cosparsi di bubboni, che rimanevano per molti giorni ammucchiati e insepolti. Il lezzo e i miasmi si diffondevano. Gli scampati popolavano le chiese, scapigliati, piangenti, imploranti misericordia. Per le strade e per le piazze lunghe processioni di gente sbigottita, di donne urlanti, di vecchi cadenti, di fanciulli atterriti.”
Si racconta che Lecce, capoluogo della Provincia di Terra d’Otranto, fu risparmiata grazie all’intercessione di Sant’Oronzo che, con l’occasione, diventò il Santo Protettore, spodestando così Sant’Irene. Continua Pietro Palumbo: “La città vide da lontano codesto nembo che si addensava terribile e minaccioso e fu in palpiti non la dovesse colpire. Si adottarono seri provvedimenti e tra le paure e le strette spalancò le chiese, e furono empite le case di voti e di preghiere. Un prete Schinia, scappato da Calabria, rinfocolò gli animi suggerendo si ricorresse alla protezione di Sant’Oronzo, conosciuto sin dai lontani paesi per primo vescovo di Lecce e dimenticato per parecchi secoli. Fece intendere che i corpi di Sant’Oronzo, Giusto, Fortunato e di Santa Petronilla stavano sepolti sotto la nostra Cattedrale.[…] L’entusiasmo diventò follia […] Un’onda di fanatismo invase la città tutta intera. Accadde quasi guiderone di tanta fede, che nella nostra provincia non arrivò il morbo” […]
Tonino Filomena