PASANO
Lo storico savese Giuseppe Lomartire, nel corso di un sopralluogo in Pasano ritrova frammenti di vasi medievali, frammenti di ceramica ellenistica e romana, frammenti di ceramica indigena. Riprendendo il Coco, il Lomartire parla poi di tombe ritrovate nella masseria di Pasano, contenenti monete romane, e di tombe svuotate presenti sotto il pavimento di una abitazione vicina alla chiesa.
La contrada è interessata da un continuum insediativo che si protrae sino ad epoca medievale (con la presenza di un Casale) ed in quelle successive.
L’omonimo Santuario, così come si vede oggi, è sorto intorno al 1712 a ridosso di una chiesa più antica, e di un precedente insediamento e luogo di culto bizantino del quale sarebbe rimasta come testimonianza, secondo alcuni storici locali (e a partire da quanto narrato in un documento ottocentesco redatto da un religioso), l’effigie della Vergine di Pasano ritagliata dal muro della antica chiesa e trasportata sull’altare maggiore di quella attuale. In realtà, alcune evidenze paiono testimoniare che in una data imprecisata del Settecento, l’effigie fu asportata dalla cappelletta dello Schiavo (costruita intorno al 1715) e posta sull’altare della chiesa di Pasano. I motivi del dipinto su lastra tufacea sono in perfetta continuità con quelli ancora presenti sullo sfondo dell’altare della Cappella dello Schiavo, il cui muro risulta monco della parte centrale dell’affresco, che corrisponde anche come dimensioni a quella presente in Pasano. Probabilmente, l’asportazione e il riposizionamento avvennero nel 1732, in occasione della realizzazione a Pasano del dossale dell’altare in pietra leccese, oppure nel 1753, in occasione di nuovi restauri del dossale resisi necessari per riparare i danni causati dal terremoto del 1743. Ai tempi della visita pastorale del Calefati (1784) la cappella dello Schiavo era comunque priva del motivo centrale dell’affresco, e il resto del dipinto era stato occultato da una pesante imbiancatura a calce (così rimase fino ai restauri della cappelletta avvenuti nella nostra epoca, negli anni ’90) per cui non era – e non è stata visibile per secoli – alcuna traccia.
La devozione alla Madonna di Pasano, nel credo popolare autrice nei secoli di miracoli e guarigioni (tanto che fino ai primi del ‘900 la chiesa era piena di ex voto) è rimasta pressochè inalterata nel tempo, e difatti nella prima domenica di marzo vi si svolge ancora un pellegrinaggio in ricorrenza.
La “festa” in onore della Madonna tuttavia nei primi del Novecento era molto più sfarzosa, e oltre alle numerose bancarelle erano presenti una cassa armonica con banda e la celebrazione ripetuta di messe. Fu proprio in questa occasione, che il piazzale e la chiesa divennero teatro, il giorno 1 marzo 1908, di una sanguinosa rissa tra due fazioni politiche avverse, Milampi e Spuntuni: il bilancio fu di due morti (uno per fazione) e diversi feriti, e persino l’altare si macchiò di sangue.
IL PARETONE E LE CONTRADE ATTRAVERSATE
Nei pressi dell’attuale Santuario di Pasano passava il cosiddetto Paretone, individuato da una serie di studiosi come Limes bizantino. Il “Paretone” è ancora oggi visibile per un lungo tratto nelle contrade Camarda e Curti di l’Oru. N.B.: da non confondere, Camarda, con la zona nella quale è situata la cosiddetta masseria Camardia, che è contrada Foggi. La vera contrada Camarda (il toponimo stesso rimanda a origini bizantine, Camarda = accampamento) si trova in quei paraggi, ma a destra della strada Sava-Lizzano, guardando verso Agliano.
Da Agliano, Camarda e Curti di l’Oru il Paretone giungeva, attraversandola, verso la attuale provinciale Sava-Lizzano e a poca distanza dal Santuario di Pasano. Il Paretone continuava attraverso un percorso rettilineo verso la zona detta La Foggia o Li Foggi (attraversando un tratto nel quale oggi non si ritrova più alcuna traccia) e, secondo il Pichierri, si stagliava attraverso quella che oggi è una strada carrareccia, sistemata proprio sui resti del Paretone (e che perciò il Pichierri chiamava “strada supra limitem”). Dopo questo tratto, e sul rettilineo dello stesso, dice il Pichierri, “si incontra un lungo cumulo di terra mista a pietrame minuto che attraversa un oliveto di proprietà ex Cinieri”. Qui, prosegue il Pichierri, tra il 1953 e il 1954 il proprietario di allora fece portare via le pietre dal vecchio confine, e venne così rinvenuto un vasetto contenente monete angioine. Il tumulo (che oggi si vede ancora), afferma il Pichierri, “è il materiale di empimento (dello scomparso Limitone) che lì è rimasto dopo il prelievo del materiale più grosso”. Questa località si chiama Morfitta. Dopo Morfitta si raggiunge il monte detto Magalastro, sul quale il Pichierri ritiene di identificare altri resti del Paretone (gli strati più bassi, mentre quelli più alti, asserisce, “sono stati asportati per essere cotti in una fornace di calce che si trova qui nei pressi” (si tratta de “La Carcara”, una vecchia fornace ormai abbandonata da tempo e semidiroccata). Sul monte Magalastro, secondo i vari studiosi del passato, terminava il percorso rettilineo del Paretone, che da lì (proprio all’altezza di una contrada ancor oggi denominata “Lu Paritoni”) svoltava ad est, attraversando la località SS. Trinità (in agro di Torricella) e continuando verso l’agro di Maruggio tra cui il monte Maciulo e altre contrade (Olivaro, Fontanelle, San Nicola) , per scendere lungo il fiume Borraco (Il Pichierri invece fa deviare il percorso, almeno nei primi suoi scritti, anziché verso l’agro di Maruggio, verso S. Maria di Bagnolo: tuttavia, tra monte Maciulo e Olivaro, almeno fino a metà del XIV secolo erano visibili resti del Paretone che proveniva da Magalastro).
Se tra le ipotesi del Paretone che attraversa il feudo di Sava la più suffragata è quella che lo identifica come confine tra Bizantini e Longobardi, non mancano altre teorie, come quella (abbandonata nel tempo) che lo vedeva come linea di demarcazione tra messapi e magnogreci o altre ancora che lo han voluto identificare come semplice limes feudale. Recentemente, uno studio dell’archeologo Stranieri ha individuato un substrato del muro effettivamente risalente ad epoca bizantina, rispetto alle funzioni del quale, tuttavia, lo studioso va cauto. Con certezza, quel lungo tratto di muro che da Borraco risaliva verso Maruggio, l’agro di Torricella e l’agro di Sava (per poi proseguire verso S. Marzano, lasciando l’agro savese poco dopo contrada Tima, all’altezza della Cappella di S. Giuseppe sita appunto sulla via per S. Marzano) servì da confine tra la foresta Oritana e il Principato di Taranto (ciò è testimoniato in una serie di inventari, che partono dal XV secolo, redatti per chiarire detti confinamenti).
GRAVA
In località Grava, poco distante dal Santuario della Madonna di Pasano, è presente una grotta (detta grotta Grava o anche grotta Palombara) che per le sue caratteristiche architettoniche lascia immaginare un uso cultuale del luogo sin da epoche remote. Si tratta di una struttura affascinante, speleologicamente censita, ma non archeologicamente indagata, e perciò meriterebbe maggior attenzione, anche perchè richiama nella forma e nella struttura il famoso Fonte Pliniano di Manduria, con la scalinata di accesso, la forma circolare, il lucernario, i sedili o dormitoi posti ai bordi. La grotta non è stata indagata ed è scarsamente menzionata anche dagli storici locali, ad eccezione di Giglio Caraccio che ne fornisce una breve descrizione e la identifica meramente come “ricovero per animali”, il qual uso può essere pure plausibile ma in tempi più recenti e comunque successivi alla sua funzione originaria, che verosimilmente risale quantomeno all’età arcaica: la “tentazione” di scorgervi un sito dedicato a Demetra (divinità venerata sia in Magna Grecia che in Messapia), in collegamento con la vicina Agliano nella quale è attestato il culto di questa divinità, è forte (considerando anche che le grotte di questo tipo sono sempre nelle vicinanze dei santuari demetriaci).
Le scalinate della grotta recano delle croci incise (indizi di un riutilizzo della grotta in epoca medievale), così come altri e diversi graffiti sono presenti sui muri del vicino “acquaroni” e della poco distante torre colombaia (sono incise qui croci, scudi con croci, e figure umane che sembrano rappresentare armigeri armati di lancia e scudo).
La vicina masseria Grava dovrebbe essere proprio quella Villa Grava che, secondo un documento ottocentesco (elaborato dall’allora Arciprete Luigi Spagnolo), fu dimora di Marcantonio Raho e del suo schiavo passato alla storia per il presunto miracolo di Pasano.
LO SCHIAVO DI PASANO
Secondo la narrazione, dalla dimora situata nella villa Grava lo schiavo si recava verso la periferia di Sava (nei pressi del luogo ove poi sorse la cosiddetta Cappella dello Schiavo), dove erano situati altri campi di proprietà del Raho (detto anche De Raho, Rago nei diversi documenti).
Lo schiavo di Pasano dovette essere stato fatto prigioniero dallo stesso De Raho nel settembre 1594, in occasione di una invasione dei turchi a Taranto. Durante l’assedio, alla cavalleria ordinaria si aggiunge difatti una cavalleria straordinaria formata da vari feudatari della zona e capeggiata proprio da Marcantonio De Raho, barone di Lizzano (erroneamente, il Coco riporta, nella sua opera “Cenni storici di Sava”, come data dell’assedio dei turchi e della cattura dello schiavo il “gennaio 1605”). Dopo uno scontro cruento, i turchi vengono messi in fuga; vi sono, tra di essi, morti e prigionieri. Proprio il De Raho, cattura durante la battaglia un giovane turco e lo rende suo schiavo. L’uomo dunque è tenuto prigioniero dal De Raho per ben 11 anni fino alla sua parziale liberazione avvenuta con il battesimo, che risale al giugno del 1605. A quei tempi era “legale” detenere schiavi, in base ad un decreto della Regia Camera della Summaria del 1575 che stabiliva che i prigionieri turchi potevano essere trattenuti come schiavi e servitori dalle famiglie che ne avessero fatto domanda. Conversioni e battesimi non avvenivano a seguito di “miracoli” ma a seguito di un’opera di persuasione esercitata dal clero (è persino lo stesso Coco a ricordarci che nella vicina Francavilla Fontana si trovavano all’epoca una ventina di schiavi che, dopo essere stati battezzati, vivevano come servitori presso famiglie nobili). Gli schiavi venivano persuasi ad abiurare la propria fede originaria e a convertirsi a quella cristiana, in cambio della libertà e/o del passaggio dalla condizione schiavi a quella di “servitori” con una serie di diritti maggiori e una libertà parziale (e naturalmente l’affrancamento da catene).
Nel giugno del 1605, come risulta dai registri battesimali, questo schiavo, di credo musulmano, fu battezzato con il nome di Francesco. Dopodichè, a battesimo avvenuto, fu portato in corteo per le vie del paese, si badi bene, non per celebrare un “miracolo”, bensì per celebrare e rendere pubblica l’avvenuta conversione, esattamente come da usanza prestabilita e prassi consolidata all’epoca: a seguito della catechizzazione, conversione e battesimo, gli schiavi venivano solennemente portati in corteo.
La conversione ed il battesimo presupponevano un lungo e laborioso lavoro diplomatico da parte del clero, che doveva prima contrattare con il proprietario dello schiavo e farsi dare l’assenso all’opera di conversione, e poi, con lo schiavo, contrattare l’abiura della vecchia fede e la conversione al cattolicesimo. Ciò che accade in Sava è dunque null’altro che quel che si verifica usualmente all’epoca ovunque vi siano schiavi prigionieri e ovunque vi sia (fra le altre cose) la presenza dei Gesuiti, particolarmente dediti al lavoro di conversione degli schiavi persino con un istituto appositamente creato in quei tempi (“la “Congrega degli Schiavi”).
La storia del “miracolo” è una ricostruzione postuma: viene difatti istituito un processo conoscitivo dell’evento dopo ben 113 anni dalla data del battesimo dello schiavo, e dopo altri 57 anni (in totale a 170 anni di distanza) il vescovo Calefati ne stila un rapporto che poi consisterà nella storia del miracolo attualmente conosciuta.
Gianfranco Mele
BIBLIOGRAFIA
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