La morte di don Cosimo Occhibianco, grottragliese, lascia un vuoto difficile da colmare, sia sul piano della comunanza spirituale, che su quella culturale. Uno studioso dagli strumenti antichi, raccoglitore di testimonianze sia umane che antropologiche. Aveva 91 anni.
Il suo dialetto, recuperato nella forma originale, ha dimostrato realmente come possa essere usato in termini non solo identitari, ma anche di ricerca sul piano di una nuova demoetnoantropologia.
Tra gli elementi che ha posto come base vi è il “vocabolario” usato come funzione comunicante, grazie a storie da lui recuperate e trasformate in modelli antropologici moderni. Per alcuni aspetti ha utilizzato la tecnica di Ernesto de Martino e di quella scuola applicata sul materiale depositato e sviluppato in grafica del territorio, ovvero quella dell’ascoltare e del raccogliere, ponendo nel mosaico delle lingue non solo la parola, ma anche le immagini.
Don Cosimo Occhibianco proviene da una scuola testamentaria per la quale il concetto di antropologia aveva un uso sostanzialmente teologico. Essendo sacerdote, ha avuto il coraggio di sradicarla dalla teologia per trasferirla sulla piattaforma laica e scientista.
I riti, le usanze, i costumi improntati alla ricerca hanno creato la percezione della conoscenza di una Grottaglie dimenticata È tornata, grazie ai suoi studi, a livelli di comunicazione interglobale.
Cosa voglio dire? È come se avesse recuperato una parola e l’avesse lanciata come una pietra di angolare nell’emisfero delle scuole linguistiche e antropologiche. Da un linguaggio di comunanza ha preso come soggetto la favola, il raccontato che diventa raccontabile per trasmetterlo, non in una storia-patria molto provincialistica, ma in una impostazione prettamente epistemologica.
Ha inferto all’antropologia umanistica un ritmo scientifico dai connotati epistemologici. I suoi tanti volumi su Grottaglie hanno creato una nuova cittadinanza alla parola intesa non come “grottagliesità”, bensì come una non sudditanza al “popolaresco” ma come voce narrante dei dialetti complici di un Dante del “De vulare”.
Ho conosciuto don Cosimo Occhibianco molti anni fa. Era la fine degli anni Settanta. Il nostro dialogare è sempre stato improntato al recupero della parola come dettato di una cultura che trova nell’antico il senso di una profezia. Il destino del Sud nella grecitá araba della parola.
Proprio per questo si allontana vistosamente dagli studi localistici andando completamente “oltre” la manifestazione del paesanismo. Un paese con la sua lingua senza la retorica del dialittismo.
Occhibianco è stato uno studioso serio che non ha mai smantellato l’ironia in quella cultura popolare che si è cresciuta nel senso del recupero della tradizione e non delle tradizioni. La tradizione come diritto all’identità e come manifestazione di una eredità in un presente in costante trasformazione.
Dal “vocabolario” ai calendari, ai diversi tomi sulla leggenda, sulla favola e sui raccontini, ad un processo vero e proprio di un recupero in cui il concetto di “popolare” si espande in una visione di immaginari molteplici, che ha fatto di Grottaglie un vero e proprio polo di attrazione per il senso di appartenenza ad una mediterraneità che ha sempre usato il valore del dialogo.
Infatti i suoi libri e la sua ricerca sono da considerarsi un colloquiare con il passato diventato memoria. Occhibianco può essere considerato il solo e unico erede di un valore identitario, in cui le cesellature antropologiche grottagliesi sono entrate nello spazio del dibattito nazionale. Interprete vero di una proposta letteraria che ha incontrato una storia. Una storia nella storiografia del canto.
È come se letteratura e storia avessero realizzato l’epicentro di un incontro tra linguaggio dialettale e lingua del dialetto. Occhibianco non ha considerato il dialetto come la parlata locale di un tempo che è stato e di un tempo che è, ma l’ha concepita come un linguaggio della lingua.
Questo è un passaggio importante che soltanto in termini antropologici può trovare la sua ampiezza. Non si riduca Occhibianco a uno studioso locale, ma lo si consideri un “antropologo della parola” nel cui vocabolario non c’è solo una città o una storia, bensì il senso di appartenenza di una comunità che non è solo quella di Grottaglie, ma dell’intero Regno di Napoli e dei linguaggi che il Regno di Napoli ha trasmesso dentro le culture moderne.
Senza l’orizzonte delle etnie storiche, che nella ionicitá salentina convivono, il senso moderno perderebbe la sua sbavatura nelle parole. Per lui il dialetto è la ricerca di una modernità nell’antico, così si spiega anche la sua scrittura in dialetto, portata ad una religiosità non clericale, ma scientifica del modello preminente degli attuali studi.
È difficile poter sostituire una personalità come Occhibianco.
Bisogna studiarlo con molta attenzione, perché non appartiene solo a Grottaglie bensì a una cultura molto più ampia sulla quale l’antropologia dell’umanismo dovrà riflettere. Non uno studioso locale, bensì un vero e proprio ricercatore di innovazioni culturali.
Pierfranco Bruni