Nella vita di Eleonora Duse ci sono viaggi profondamente letterari tradotti in arte teatrale. In questo centenario della scomparsa della Duse affronteremo dettagli particolari tra arte e vita.
Oltre dieci anni fa recensendo (2013) un libro su D’Annunzio, scritto da Pierfranco Bruni e Neria De Giovanni, raccontai della presenza di Eleonora Duse tra D’Annunzio e Arrigo Boito, fratello di Camillo che pose al centro la sensualità. Due amori e due personaggi tra letteratura, mito e esistenza. Quel libro poneva, con molto acume, in evidenza alcuni di questi aspetti.
Un libro compatto e articolato che passa in rassegna un D’Annunzio “particolare” e vitale in una chiave di lettura in cui l’estetica e il sublime restano fondamentale. Questo soprattutto nella prima parte sottolineata da Pierfranco Bruni.
La seconda parte del saggio dal titolo “Io ho quel che ho donato” (pubblicato dalla Casa editrice Nemapress – Roma – Alghero) è scritta da Neria De Giovanni, una critica letteraria che ha dedicato numerosi scritti alla letteratura italiana ed è una attenta specialista di Grazia Deledda, entra, con la sua consueta profondità, nella poesia di D’Annunzio scavando tra le parole e dando alla Parola il senso non solo estetico, ma anche storico.
D’Annunzio viene contestualizzato nel suo tempo – epoca con l’analisi dei testi in una vera e propria interpretazione delle “Laudi” segnando un percorso che va dal 1903 al 1918. Il mare, la terra e gli eroi. Le città del silenzio. L’Oltremare con le Canzoni. Il mondo latino con i versi – canzoni della guerra latina.
Uso un linguaggio discorsivo perché Neria De Giovanni sembra accompagnarci per mano, e ci accompagna, lungo i sentieri della parola. La parola, appunto, diventa il centro di un processo che rende D’Annunzio protagonista nel cuore delle lingue. Ma il capitolo sul legame della “trincea” ha una straordinaria bellezza perché D’Annunzio e Ungaretti sembrano dialogare.
La trincea è una metafora ma anche una geografia di uno spazio che diventa tempo sino a concludere: “D’Annunzio contemporaneamente seppe far evolvere la sua dotta e profonda cultura storico-letteraria fino ad arrivare a risultati che vanno verso una più aperta modernità come le strisce paratattiche de Il notturno la prosa poetica de ‘I Cento e cento giorni di Gabriele D’Annunzio tentato di morire’.
Ungaretti, dal canto suo, inaugurerà la stagione chiamata dell’”ermetismo” con la disgregazione dei metri tradizionali e il trionfo di quella parola poetica, riverginata da uno spazio bianco che era insieme silenzio e ritmo”.
La prima parte è scritta da Pierfranco Bruni, scrittore, poeta e autore di numerosi saggi sulle letterature del mediterraneo e specialista di Cesare Pavese, e introduce sia alla poetica di D’Annunzio sia alla “vita spericolata”, per usare un linguaggio caro a Vasco Rossi, del Vate.
Bruni mobilita il suo esistere per raccontarci il D’Annunzio tragico, e lo fa attraversando storicamente gli anni della guerra, artisticamente giocando con Wilde e Edvard Munch. Si conferma ancora come l’interprete della presenza tragica nella letteratura del Novecento non trascurando il destino degli amori dannunziani, e in prima istanza campeggia la figura di Eleonora Duse.
Bruni legge il suo romanzo del 1900 “Il fuoco” con una nicciana visione che lo riporta al “Trionfo della morte”. Ma la forte originalità di questo D’Annunzio letto da Bruni consiste nella simbologia degli oggetti.
Infatti c’è un capitolo in cui si parla del D’Annunzio che è costantemente in contatto con il mondo sciamanico e chiosa oggetti presenti al Vittoriale come la tartaruga, l’aquila, i cavalli, il Budda. Sono segni non empirici, ma vengono considerati segnali precisi di una metafisica dell’esistere in una cultura radicata tra Oriente ed Occidente.
C’è al limitare della sua parte un capitolo fortemente poetico in cui si parla di “tende verdognole” e analizza le “Novelle della Pescara”, dando a questo testo una lettura marcatamente metaforica.
Ma a Bruni interessano due elementi: il tragico e l’alchimia sciamanica che sono punti di riferimento, secondo l’autore, nel mondo letterario e magico di D’Annunzio. Bruni si pone una domanda: “Come è possibile andare oltre Gabriele D’Annunzio in un secolo, breve o corto, come il Novecento? D’Annunzio è ancora un protagonista in un Novecento letterario che non si è ancora chiuso e non si è ancora “normalizzato” nella storia della “modernac-ontemponea” epoca che viviamo”.
Il lavoro di Bruni e De Giovanni si chiude con il contributo, un tassello importante e di alto valore scientifico, di studiosi di diverse università straniere che ci fanno capire come D’Annunzio è stato letto e viene, tuttora, considerato in realtà come gli Stati Uniti d’America, l’Albania, la Franca, la Romania, l’Australia, la Catalogna.
Ma è proprio la Duse al centro del percorso del D’Annunzio tea fine ottocento e il libro del congedo, ovvero il “Notturno”. Uno dei romanzi che dopo “Il fuoco”, oltre i perimetri alcoolici, in cui la Divina diventa fondamentale.
La Duse tra “Il fuoco”, “La pioggia nel pineto” e il “Notturno” è l’interprete fondamentale anche della teatralità del Vate. Approfondire la storia e il linguaggio che si trovano nelle pagine del “Fuoco” significa anche entrare in una visione dusiana in cui Foscarina è la metafora di Undulna. Un viaggio affascinante in quella Duse che trasforma il teatro e rivela la modernità dei linguaggi delle arti comparare. Nel libro del 2013 citato ci sono già questi elementi che danno un senso alla letteratura e al teatro del Novecento.
Marilena Cavallo