A Maruggio non fa freddo, a Milano sì. Maruggio, ora in provincia di Taranto a due km dal mare Ionio sulla direttiva di Manduria, ricco entroterra agricolo della piana salentina, è il paese natale di Emilio Marsella. La zona Lorenteggio di Milano, dove abita ed esercita le sue arti, era periferica sicuramente quando ci è arrivato Emilio, durante il militare, decantata da Gaber come pullulante di trani, le osteriacce popolari dove veniva mescito il forte vino pugliese, detto m(i)ero, schietto. Sta in questi due luoghi la vita e l’arte di Emilio Marsella, classe 1929, che ha trascorso la fanciullezza a Maruggio in una famiglia di contadini, privato a 8 anni della madre per una malattia, ed educato dalla nonna, che parlava “la lingua dell’orto”. Appena terminati gli studi inferiori, il padre lo sostiene economicamente e lo manda al Ginnasio-Liceo di Martina Franca, all’interno della Valle d’Itria, oggi famosa per il Festival di Teatro e della Lirica. Non riesce a terminare gli studi perché due mesi prima degli esami è costretto alla interruzione per una malattia. Questi brevi cenni biografici di Emilio Marsella definiscono già gli elementi essenziali, culturali e umani, della sua avventura artistica e letteraria. Innanzitutto la campagna tarentina, caratterizzata da casupole rurali onnipresenti nei quadri dipinti da Emilio, i campi, i prodotti della terra e le figure di donne, evocate nella loro presenza costante della sua vita – la saggezza della nonna innanzitutto – e nella assenza – la madre -, che lascia un vuoto incolmabile nell’animo del poeta, un vuoto che trova significativa espressione in queste teorie di donne che stanno sempre in vigile attesa. Ritratte per lo più dalle spalle o dal fianco, mai di fronte, esse costituiscono le presenze/assenze in dimensioni notevoli, con gli abiti tipici della cultura contadina, specie di chitoni che coprono la testa in segno di omaggio e di rispetto nei confronti del miracolo della natura che si reifica sotto i loro occhi, rappresentato dagli elementi vegetali o da una insenatura marina con la discreta presenza umana di una o due barchette in riposo sulla riva. Accanto alle donne ormai mature, forse anziane, delle giovanette alle quali esse affidano le conoscenze e i misteri della vita, a volte delle immagini di animali appena accennate e soprattutto i segni della civiltà contadina nella presenza di una giara destinata a contenere il raccolto o l’olio di oliva che viene spremuto dai frutti dagli alberi contorti che animano il paesaggio, a volte dei piatti di dimensioni ampie che richiamano nella forma la tradizione della ceramica greca e della produzione fittile dello stile di egnathia e poi in primo piano le verdure tipiche del sud, sempre ben ritratte (melanzane, peperoni, ecc.). Le figure femminili non sono mai evidenziate nei contorni che appaiono quasi indefiniti e lo stesso trattamento Emilio riserva al paesaggio e ai segni dell’uomo, sembrano quasi delle masse che incombono. Il movimento è affidato all’uso sapiente dei colori, a volte volutamente contrastante e vivo proprio per sottolineare la dinamicità della vita rispetto al destino di morte, che ha colpito l’artista negli affetti più cari e soprattutto che sembra lì quasi a ricordare la sorte umana con il suo carico di sconfitte, che solo attraverso l’arte può redimersi. Le sculture di statuine in terracotta e in bronzo seguono lo stesso canovaccio. La sua terra, immersa nella cultura greca della vicina Tάρας e di quella messapica della grande città di Manduria, di cui restano le fondamenta delle mura ciclopiche, insieme agli studi classici forma la cultura umanistica di Emilio, che ritrae nei suoi versi il paesaggio, nostalgicamente inteso e come depositario del nostro passato fiorente, ora rimpianto. Un paesaggio che non può trovare corrispondenze nelle nebbie e nei freddi della pianura milanese. Ecco che l’arte supplisce, per così dire, ai sogni e ricrea atmosfere rarefatte, indefinite ed eteree!
San Giuliano Mil., 22/01/2013
di Paolo Rausa su Italia-express
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