Mio padre aveva gli occhi azzurri e guardava la vita con tenerezza celeste. Non reggeva la sua durezza, ne fuggiva le asprezze e si rifugiava nel mare, nel sole, nella scuola e nelle letture. Curava i suoi libri come si curano le piante, faceva giardinaggio filosofico. Animo gentile prima che gentiluomo, amava dimettersi e pagava in anticipo per non avere mai debiti. Rimase per una vita nel paese natìo, non conobbe paesi stranieri, metropoli, traffico e affanni. Barattò il proprio tempo per il proprio luogo, preferì Socrate all’automobile. Gli bastava Kant per conoscere il cielo stellato, senza mai salire su un aereo.
In età grave non sopportava più la vita che si era fatta buia, sorda e pesante, e lui aveva la leggerezza degli spiriti delicati. Alla fine il suo corpo si era adeguato alla fragilità del carattere; le sue piume di cristallo si erano scheggiate. Scrivo di mio padre ma so di parlare di ogni padre perduto, non c’è cosa più universale degli affetti privati. E se il mondo ti istiga a rendere pubblico ciò che è intimo, tanto vale esibire gli affetti più intimi.
La notte dopo il funerale ho voluto dormire nel suo letto. Era il letto nuziale, più di sessant’anni di notti con mia madre. In quel letto son nato, là in mezzo a loro ho dormito i miei primi anni. Approfittando della loro assenza, volevo tornare nella loro stanza, tra i loro oggetti, il comodino gremito di lui, i suoi vecchi arnesi per vivere e per sperare, sotto quel Gesù che si affaccia sul letto e benedice i dormienti. Ho rivisto un mondo, nella veglia e nel sonno. Ho ricordato ogni cosa, dalla borsa calda che ci passavamo tra i piedi ai racconti prima di dormire, accarezzandomi la testa.
Penso alle ultime volte che ho camminato con lui. Mano nella mano a mio padre, come cinquant’anni prima. Ma il bambino stavolta era lui; non vedeva e non sentiva quasi più, e non sapeva più camminare da solo. Stava svanendo la sua mente e a volte, dopo una giornata trascorsa in casa, chiedeva di tornare a casa. Non era demenza senile, ma una traccia estrema di lucidità e una richiesta disperata di aiuto: chiedeva di tornare in sé, di ritrovare il suo corpo e la sua mente, e usava la metafora più elementare, la casa, per invocare il ritorno. Era una specie di Ulisse a rovescio che non era mai partito da Itaca, ma la sua mente era partita da lui, in un’odissea senza ritorno, facendolo sentire straniero in casa sua. Voleva ritrovare Penelope, il telaio e la trama perduta della sua vita. E rincasare tra i suoi libri e le sue abitudini. Pochi anni fa aveva tradotto il de Senectute; ora invece lo attraversavano a volte allucinazioni brevi e gentili, si chinava a cogliere qualcosa di prezioso o tirava con l’indice e il pollice un filo invisibile che solo lui vedeva: raccoglieva fiori metafisici, gemme platoniche, avrebbe detto lui stesso quando insegnava filosofia. Quando perdeva lucidità il suo sguardo era una lavagna cancellata da ogni traccia di sé, e pure la bocca sembrava perdersi nelle rughe del vuoto. Ha riacquistato da morto la dignità signorile della sapienza. La mente offuscata gli donava tuttavia il candore dei cinque anni, il suo viso era come liberato da novant’anni di vita e tornato bambino come nella foto vestito da marinaretto, sgombro da pensieri e memorie. È dolce scoprire in un vecchio dove si nasconde il bambino, snidarlo negli sguardi e nei modi di atteggiarsi. Ma è un esercizio che costa a chi lo ama, perché se lo vedi bambino vedi svanire dal suo volto la vita e la storia da cui tu discendi, l’incontro con tua madre, la tua famiglia, la paternità, i libri e la memoria di te. Rinunci a quel che di te c’è in lui pur di salvarlo dall’oltraggio della vecchiaia. Dai bambino, apri gli occhi, non scherzare con la morte.
Una delle ultime volte che venni a trovarlo era seduto sulla sua poltrona inondata dal sole e aveva gli occhi socchiusi. Mi sedetti accanto a lui, gli sfiorai le mani e gli sussurrai qualcosa all’orecchio per avvertirlo della mia presenza. Lui mi guardò appena, muto e vago, poi mi chiese chi fossi. Dissi ad alta voce il mio nome, e lui biascicò sottovoce come parlando a invisibili terzi: ah, è il fratello… Ma sono tuo figlio, guardami, alzai la voce. Mio padre accennò di traverso uno sguardo, tacque, poi risalì dal silenzio e mi chiese come se fosse tornato alla normalità: hai visto sul giornale se c’è la notizia della mia morte? Gli presi le mani e gridai: babbo, che dici, sei vivo, stai a casa tua. Come redarguito, mio padre girò leggermente la testa dall’altra parte, serrò le labbra come un portone antico mentre due lacrime brillavano alle estremità dei suoi occhi perduti nella notte.
Alla fine in ospedale, gli massaggiavo a lungo la spalla, ormai scheletrita, per dargli un estremo conforto e per riceverlo. Era l’ultimo modo per stabilire un contatto con lui. Vivendo lontano, non l’ho accudito come hanno fatto i miei fratelli; gli ho solo cucito vestiti di parole. Ma a quegli abiti lui ci teneva. Ho perso il mio primo e più affezionato lettore, ho perso il mio primo e indispensabile autore.
In uno dei momenti di serena lucidità, la sua badante gli stava raccontando che sarei partito in barca per un viaggio. Poi gli disse: «Preside, perché non vai pure tu con lui in barca?» Ero vicino a scrivere, mi fermai per guardarlo, lui si illuminò in viso e più volte ripetè ridendo: «Io in barca…». Sorrideva come un bambino e socchiudeva gli occhi azzurri, il padre mio. Chissà cosa sognava: la vita che si riapre al largo, il passato che riemerge dai flutti, una carezza di vento in alto mare. Alla fine è salpato da solo.
Però mio figlio ha gli occhi azzurri.
Marcello Veneziani su Il Giornale, 09/10/2010
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