Le civiltà sono nella civilizzazione di un processo che è ideologico chiaramente ma che trova nelle rivendicazioni nazionalistiche il dato centrale che si trasforma in tragedia.
Ci sono Genocidi e stermini che hanno valenza sia ideologiche etniche e il problema della “razza” assume dimensioni conturbanti. Il Genocidio etnico subito dal popolo italiano e cominciato già con la Grande Guerra, le cui radici, comunque, hanno una intermittenza geopolitica distante dalla storia contemporanea trova nella stagione 1943 1947 un suo drammatico epilogo con la questione istriano – dalmata e con ciò che sono state definite il massacro degli infoibati.
Due sono le entrature storiche in una tale dolorante vicenda. La prima è di ordine prettamente ideologico. Dopo il 25 luglio del 1943, ovvero dopo la caduta del Fascismo in Italia e dopo la scandalosa giornata di Cassibale, ovvero Armistizio con la guerra che continua, subentra quell’odio ideologico attraverso il quale Tito ha retto il suo Paese sino ad anni piuttosto moderni. La seconda è strettamente legata ad un odio etnico contro l’italianità.
Tutto ciò che sapeva di italianità ed era italiano entrava nel gioco del Genocidio. E di Genocidi ne abbiamo avuti, a cominciare, nel Novecento, da quello terribile nei confronti degli Armeni. Ma la questiona Istriana, Dalmata, Fiumana tocca nel cuore l’essere italiani, l’essere stati italiani, l’essere coraggiosi nel dirsi italiani rivendicando, come nella Riforma scolastica Gentile del 1923, l’identità linguistica e ed etnica italiana. Le Foibe sono ancora dentro la civiltà identitaria italiana.
Su questo sto lavorando da anni sia sul piano storico – letterario (sino ai recenti romanzi di Stefano Zecchi) sia sul piano etnico (in un lettura tra etnia storica ed etnia contemporanea croata – slovena). Ho tra le mani un Diario di un superstite che racconta tra versi e pagine annottate delle storie che sono sentieri di umanità in una tragedia che ci appartiene come Italiani.
Credo che dovremmo sempre più rivendicare la nostra nazionalità, la nostra identità, le nostre radici. La Fiume di D’Annunzio è da riconsiderare, i profughi istriani cantati da Sergio Endrigo sono ancora da riascoltare, i morti ammazzati e scaraventati nelle gole dei grovigli rocciosi pesano sulla coscienza di un’Italia che si considera libera e democratica.
Il Diario di questo Anonimo, sul quale sto lavorando, verrà pubblicato ed è qui che apriremo anche un confronto tra la storia e le storie. Dal “Diario Anonimo di Uomo che scappò dalla Terra degli Infoibati” è questo il titolo. Lo devo ai mie studi su Grisi che mi hanno permesso di avere tra le mani queste pagine datate 1946 – 1947.
Apro una pagina: “Siamo fuggiti, ma i colpi sono un rombare di tuoni. Io sono qui, ma Claudia è stata stuprata”.
“Sono stracci di uomini e donne appesi alla luna grandante sangue. Io sono Italiano e l’Italia non so dove sia.
E poi: “LA MEMORIA È SANGUE/ In quei giorni fummo sradicati.
Chi rimase lasciò un urlo di sangue tra le carsiche rocce che la memoria inceppa al chiodo del cuore.
Ci furono i silenzi e le maschere che non smettono di tagliare le parole e fu la storia la colpevole realtà di una verità taciuta.
In quei giorni fummo sradicati nella voce e nel destino.
Altri tanti altri i cui nomi sono nel disegno della tragedia
precipitati vivi nelle pietre della morte”.
Altre pagine aprirò in questi giorni.
Pierfranco Bruni
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