Teatro e vita. Non solo un pirandelliano modello di affrontare l’esistente. Un assurdo tra Shakespeare e Ionesco nello scavo dei labirinti che hanno recitato la grecità profonda dentro la latinità.
Giorgio Albertazzi. Un centenario da ricordare. Un maestro che trasformò l’ironia in bellezza. Quante condivisioni e quante passeggiate nelle notti di Roma tra discussioni, pensieri e libri.
“La felicità è vivere e io sono per la vita”. Usava ripetere spesso Giorgio Albertazzi. Un pirandelliano amletico che sulle scene diventava uomo senza maschere perché il teatro non può avere maschere. In teatro bisogna essere se stessi.
Tra la Grecia e i vari Orienti che ha vissuto.Quando un attore e un uomo, un uomo e un attore, come Giorgio Albertazzi si assenta dalla vita terrena, la sua vacanza crea una voragine. La crea nella vita di chi lo ha conosciuto, gli è stato amico, gli è stato vicino in alcune parentesi di vita, ci sono state concordanze culturali e letterarie che hanno accomunato i nostri percorsi e i nostri interessi (penso alle “Memorie di Adriano” del quale discutemmo, decenni fa in un convegno: Grisi, Albertazzi ed io).
L’ultima volta che ci siamo incontrati è stata alla registrazione di una trasmissione di Gigi Marzullo per Rai Uno. L’incontro che si stabilì e che fu nodale avvenne anche a Taranto quando portò sulla scena proprio “Memorie di Adriano” della Yourcenar in occasione dell’unico originale Magna Grecia Festival, da me voluto, e lui aprì con il suo straordinario monologo con quella sua tonaca bianca.
Era nato il 20 agosto del 1923 a Fiesole. Cento anni fa, appunto. Il suo bianco e nero nella prima stagione della televisione lo rese protagonista di storie e di letterature che restano incisi come arcani nella vita di generazioni. Lo aveva conosciuto anche mio padre (giovane della classe 1920, ma uniti da un uguale sentiero ideologico, passando da casa mia, in Calabria insieme a Grisi) e ne aveva una grande stima.
Tutto il percorso mitico dal 1949 in poi è stato nella sua storia teatrale ma anche nel suo vissuto. Il mito come senso tragico e la tragedia come un Cervantes che conosce il palcoscenico, ma sa molto bene cosa si può nascondere dietro la ribalta e dietro ogni scena. Fu un uomo di teatro nella vita e nel teatro e non dimenticò mai di essere un uomo vissuto, ma che sempre si meravigliava sino a raccontarci la letteratura contemporanea.
Dal cinema alla televisione al teatro. Un personaggi che sapeva raccontare il destino e l’avventura. Un istrione il cui inquieto scorrere della vita era il sorriso.
“Il sorriso è il saper cogliere anche il dolore”, mi disse parlando della morte di Francesco Grisi nel 1999.
Amici noi tre in quelle passeggiate notturne di una Roma sfavillante di colori in tramonto. Non smetteva di viversi e di regalarci la sua ironia. Da uno degli ultimi film risalente al 2011 “C’è chi dice no” a “Delitto e castigo”, il bianco e il nero, in televisione del 1954.
Il fatto è che parlare di Giorgio Albertazzi è parlare di una letteratura che intreccia i destini con le allegorie. Il destino di Adriano è il destino della solitudine e della gloria nei popoli e nell’uomo. Dante, Petrarca, Leopardi, Neruda, Eliot, Eluard, Pasternak, San Francesco (I Fioretti) e Amleto letti, interpretati, recitati. E poi Garcia Lorca.
L’uomo Albertazzi è l’uomo di una coerenza letteraria e di una fede culturale attraverso la quale la cultura e la sua formazione sono rimaste nella sua tradizione. Nella sua coerenza ci sono anche i suoi libri. E c’è l’amicizia con un filosofo come Manlio Sgalambro.
A venti anni aderisce alla Repubblica di Salò. Ricopre un incarico importante dal punto di vista militare. È tenente nella 3^ Compagnia della famosa “Legione Tagliamento” che giungeva dalla scuola di Lucca. Nel 1945, con la sconfitta definitiva del fascismo repubblichino. al quale aveva aderito con forte convinzione, viene arrestato e accusato di essere stato il comandante di un plotone di esecuzione. Accusato di collaborazionismo. Resta in carcere fino al 1947 e liberato perché viene firmata e applicata la Amnistia Togliatti. Un uomo che non ha mai rinnegato e che ha visto nella sua giovinezza quella primavera che cercava anche mio padre. Un uomo dalla formazione forte e che non è mai traslocato sui carri dei vincitori. Coerenza, nobiltà di idee, dignità, lealtà.
Il più grande attore che è riuscito a portare, interamente, sulla scena quella letteratura che per molti è solo lettura e per Giorgio è stata vita. Ha sempre creduto in quella frase che spesso citava: “Ci sono pochi modi nella propria esistenza di sfiorare l’eternità, uno è il sogno”.
Nel sogno ha creduto sino agli ultimi giorni. Nella fantasia e in quel sorriso che non era maschera ma profonda ironia. Quanti discorsi nelle vie di Roma. Resta molto problematica quella sua frase che fece discutere: “Aveva ragione Benito Mussolini quando diceva che gli italiani sono ingovernabili. Sono impossibili, perché sono individualisti, ma poi nemmeno tanto, perché hanno bisogno di un complice e , aggiungerei, anche di un padre. Sono fantasiosi, ma nello stesso tempo sono completamente indisciplinati”. Si discusse a lungo, e la sua pazienza e le sue pause avevano delle verità mai taciute.
Con molto coraggio aveva detto che una canzone di Vasco Rossi, in certi momenti della vita, vale quando una poesia di Leopardi. Un’intelligenza che soltanto gli uomini liberi possiedono. Un grande maestro, un grande amico, un personaggio unico al di là dello specchio e delle maschere.
Quando la letteratura recita la vita si fa destino. E quando la vita è destino la letteratura scava non solo tra le parole.
Io l’ho vissuto, nelle passeggiate romane, negli studi televisivi della Rai, negli incontri con Francesco Grisi come un grande viaggio nella vita e nel racconto.
“Non dimenticare di raccontare sempre te stesso. Quando non ti trovi, fermati. Arriverà la parola giusta che ti permetterà di raccontarti”, Giorgio mi telefonò dopo la morte di mio padre. Io rilessi quel suo libro “Un perdente di successo” del 1988, che presentammo in quegli anni a Roma. Ma aveva già pubblicato nel 1976: “Uomo e sottosuolo”, un titolo in cui le metafore sono pieghe di vita. Nel 1973: “Pilato sempre” e nel 1953: “La nave dei liberti”.
Dobbiamo sempre considerarci uomini e mai dei: mi disse parlandomi di Shakespeare. Il mio amico un grande maestro. È morto il 28 maggio del 2016 a Roccastrada, tra il vento de “Il mercante di Venezia”. Quanti fatti ci sarebbero da raccontare. Tutta una vita. Tutta una storia tra cinema e teatro. Una lunga discussione improntammo su un poeta e un intellettuale francese ucciso per collaborazionismo nel 1945: Robert Brasilach.
Dopo aver letto e riletto alcuni suoi testi dopo l’uscita del mio libro proprio su Brasillach (mi pare che fosse il 1988, a Caserta) disse una frase che rimase celebre:“La vecchiaia è più corporea della giovinezza, ti costringe a fare i conti con il tuo corpo, che reclama le sue esigenze. Quando sei giovane non ti accorgi di averlo, ti obbedisce. Ma poi arriva il momento che ti dice ‘no, questo non lo puoi fare perché sei vecchio’.”. Sì il nostro discorso era Brasillach, ma dentro questa frase c’era il mistero della vita e del tempo. Quel mistero e quel concetto di tempo che recitò con la Yourcenar. E l’Adriano che incarnava l’Occidente nella lezione dei Mediterranei. La poesia come la grande immagine che supera l’immaginario.
Ma anche l’uomo di coraggio e coerente sino a dichiarare, con la sua corazza di maestro, in una intervista a chi gli chiedeva del massacro di Piazzale Loreto, con Mussolini e Claretta Petacci appesi per i piedi: “Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì. Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondo apparente- mente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq”.
L’uomo, il maestro, la poesia. Tra i nostri incontri tra una discussione, uno spettacolo, un libro. Insieme discutemmo anche di Giuseppe Berto dove entrambi eravamo parti integranti di un comitato per ricordare il Berto di “Anonimo veneziano”. Il sentire del dubbio è nel dubbio della verità. Ma il Teatro ha una profonda venatura filosofica e questa è data dal pensiero. Ogni viaggio scenico è un immaginario in Albertazzi. Questo immaginario è nel recita della forma e del pensiero e ciò si vive nella poetica dell’essere dentro la quale il teatro di Albertazzi è vissuto.
Giorgio Albertazzi. Un centenario da ricordare nella storia della cultura
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