Se la morte ha un senso la vita è un misterioso cammino. Sino a quando la ragione e il sentimento, il pensiero e lo sguardo nello specchio, la maschera nel teatro dell’esistere e il dubbio come “incastro” nella salvezza tra l’eterno e il finito non diventino scavi, solchi, inquietudine: c’è sempre un senso nella morte e il cammino misterioso è nella vita.
Il suicidio porta con sé sia l’esilio dalla vita sia il misterioso senso dell’assenza. Non ci si chiede mai perché si giunge al gesto estremo e perché si avverte il bisogno di scendere “nel gorgo” (Pavese). In quel gorgo muto dove solo il silenzio ha il dono della misericordia. Ognuno di noi si porta dentro quel “sottosuolo” mai inesplorato e che mai potrà essere esplorato se non nel momento in cui si va oltre la vita stessa. Mai avere la presunzione o la presunta “volontà” di proporre una parola.
Le parole sono nel gesto estremo. In quel “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”.
Mi ha fatto tremare la morte nella vita di Achille D’Amore. O forse la vita nella morte. Un amico? Non del presente. Ma un antico rapporto. Poche frequentazioni se non nel periodo della nascita di Micol, la mia prima figlia. Tanti anni fa. La sua gentilezza, la sua precisione, la sua ironia in un carattere sicuro. Mi è stato molto vicino. Tanti anni fa e la sua disponibilità aveva uno stile di eleganza. Un uomo che stimavo.
In molte occasioni ho avuto modo poi di incontrarlo con quel suo sguardo attento pur in un lavoro che non concedeva distrazioni. E questa sua morte, in molti di noi, lascia perplessità e onde di malinconia greca.
Non ci sono domande davanti a un suicida. Occorre rispetto. Non esistono suicidi timidi scriveva Pavese, perché il suicidio, non la morte in sé, ha il coraggio di una rappresentazione in cui la tragedia e l’ironia si incontrano.
Occorre rispetto nella dignità di una morte che, in questo caso, non si sconta vivendo (Ungaretti) ma diventa quel “buio conquistato” di cui parlava Antonia Pozzi: “…nel mio buio conquistato/brillerai, fuoco bianco,/parlando ai vivi della mia morte”. Occorre non solo consapevolezza ma una profonda carità nel viaggio della pietas di una cristianità dell’accoglienza.
Forse una domanda accogliendo la tragedia di questi destini è possibile porsela con David Maria Turoldo: “Dio come fanno?Ma Dio ch è?/Non c’è./C’è solo silenzio//E non c’è scampo/non c’è scampo…”. Ma il morire di Achille non è una domanda e neppure una risposta. Nel suo nome c’è una metafora antica.
Ho lo sguardo perso nello specchio ma non mi osservo e neppure riesco a vedere i miei tratti. Sono i pensieri che hanno preso il sopravvento. Perché non trasformare i pensieri in un pensare? Chi di noi avrà il coraggio di colmare questo vuoto che non è morale e tanto meno etico ma profondamente esistenziale.
Viviamo in quel tremore kierkegaardiano che supplisce le solitudini che non riusciamo a rischiare e le consolazioni, oggi, sono altre sconfitte. Una vita “navigata” nell’assenza non ha bisogno di consolazioni. Le consolazioni non restituiscono l’attesa e tanto meno attraversano la speranza dentro le coscienze. Rispetto e silenzio.
Per chi ha fede tutto diventa inquieto smarrimento che prepara al riparo della consolazione attraverso la speranza. Per chi la fede in Cristo non ha un riposante tracciato solo la saggezza vive il tempo del dolore.
Lo stoico accetta perché sa che bisogna andare sempre al di là della paura e al di là della passione (Seneca) mai smarrendo le finalità del gesto estremo. Ma nello stoico c’è quella venatura per la quale Giordano Bruno ha accolto la morte come saggezza di una anca consapevolezza.
Io che continuo a vivere le parole dei poeti suicidi, cercando non di capire ma di penetrare il passo della scelta, accolgo questo gesto con la serenità smarrente del tragico e del dolore.
Achille, nelle poche volte che ho avuto modo di incontrarlo, in questi ultimi anni, mi chiedeva: “Aspetto ancora il tuo romanzo ‘Quando fioriscono i rovi’”. Già, quando fioriranno i rovi sulle sponde di Lee Masters?
Anche nelle morti tragiche, nate da una volontà e dalla consapevolezza, la dignità ha un senso legato al coraggio della lealtà: è un insegnamento giapponese che ha la gloria del combattente, a me molto caro.
In queste ore il senso di morte e di vita, vita nella morte e morte nella vita, (Michlestadter) di Achille vive nella valle del mio mare con gli arcobaleni che chiedono al vento una risposta. Qualsiasi risposta il vento potrà dare resterà sempre un limite tra le vele spiegate paoline e le ali della farfalla di un “gelsomino notturno” i cui colori non sono fatti di notte ma di una luce abbagliante che va oltre le rive dell’esistere stesso. Restiamo, comunque, mistero – esistenza e inquieto vivere appesi ad un filo di luna che chiede alla luce di superare il buio e all’angoscia di raccogliersi nella Grazia.
Pierfranco Bruni
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