Non ho altro a cui pensare se non al mare di Ernest Hemingway e al vecchio che lacerava il tempo. Ma il mare è sempre quella dimensione dell’ esistere che inquieta lo spazio del nostro tempo come ci ricorda Cesare Pavese.
Cosa accomuna Hemingway e Pavese? La quarta parete. Certamente. E poi quella necessita di fermare il tempo e di scendere nel gorgo. La parola che resta vitale in entrambi si chiama suicidio. Hemingway, marinaio e stanco di vivere la vita nella scrittura. Ovvero di attraversare la scrittura raccontando le vite. Forse solo Marilyn è stata il suo sogno. Poi le palme e gli azzurri di Cuba.
Pavese ha vissuto i suoi Mari del Sud tra una donna dalla voce roca e quella venuta dal mare. Constance. Quella donna che “detterà” a Cesare Verrà la morte…
E sì verrà sempre la morte…
Quale viaggio altro ci sarebbe stato se Ernest non si fosse suicidato? E con quale Leuco’ si sarebbe ancora incontrato il mio Cesare?
Hemingway, i mari del Sud li ha vissuti e li ha abitati nella metafora e nella geografia della esistenza. Pavese li ha custoditi con il pensiero diventato sogno. Entrambi non dimenticando mai che l’amore e la morte provengono dal mare che ha la dimensione del tempo.
La letteratura è anche sapersi confrontare con la morte.
E ora giunge un uomo vestito di bianco e non porta più parole, ma sorriso e con il suono di un ballo sudamericano osserva il passare del tempo lungo le attese che non si chiuderanno più tra le parole e neppure nel ritorno di Marilyn o di Constance.
Perché lo scrittore che è scrittore, ogni oltre pavida leggerezza, scrive sempre la vita che vive?
di Pierfranco Bruni
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