MONACIZZO – «Pietrino Vanacore è morto per liberarsi da una giustizia che lo ha perseguitato per vent’anni. Si è ucciso perché sapeva che non avrebbe più retto ai nuovi attacchi dei giornalisti e delle telecamere». Questa consapevolezza, diffusa tra i parenti, amici e compaesani, è esplosa ieri pomeriggio all’ingresso del feretro in chiesa, quando una voce di donna ha sferrato l’attacco contro la schiera di cronisti e foto operatori, considerati i «veri colpevoli» di quella tragedia: «Adesso battete le mani, assassini». Una frase urlata in dialetto che si presta a molte interpretazioni tutte riassumibili in un pesante atto d’accusa: ora che lo avete ucciso, voi della stampa, siete contenti? In un’atmosfera di questo tipo si sono svolti ieri a Monacizzo i funerali di Vanacore, l’ex portiere di Via Poma trovato morto martedì a mezzogiorno in una conca d’acqua di Torre Ovo, marina di Torricella. La chiesetta al centro del piccolo borgo, intitolata a San Pietro e Paolo, conteneva a malapena le oltre duecento persone presenti ai suoi funerali. Tra queste anche diversi giornalisti, senza microfoni né telecamere, che si sono mantenuti a debita distanza su consiglio del capitano dei carabinieri, Luigi Mazzotta che con i suoi uomini ha provveduto a rendere più sopportabile il clima di forte ostilità che si era creato sin dal primo pomeriggio, giunto al culmine quando la cassa color noce scuro ha lasciato la casa di via Don Luigi Sturzo. In quell’occasione un fotografo che aveva osato più degli altri suoi colleghi, è stato allontanato in malo modo da un gruppo di parenti posti a difesa dell’intimità della famiglia. Poi la pace è tornata con l’omelia di don Gianluca Bleve il quale, mantenendosi ben lontano da qualsiasi richiamo alla morte cruenta e, sino a prova contraria, suicidaria del defunto, ha recitato a braccio un breve discorso generico che solo in chiusura conteneva un esplicito richiamo al dramma di Vanacore: «Il signore accolga Pietrino tra le sue braccia – ha detto il parroco – per dargli quella pace e serenità nel cuore che per tanti anni ha cercato». Per venti anni, esattamente. Da quando il settantasettenne di origini savesi, lasciato in sospeso il conto con la giustizia che per un paio di settimane lo aveva trasformato nel mostro di Via Poma, si era trasferito a Monacizzo illudendosi così che rifugiandosi nella sperduta frazione di Torricella avrebbe tenuto lontano il suo nome e il suo volto dai mezzi di informazione che, in verità, non lo hanno mai abbandonato. Dopo i funerali, la moglie Pina con la figlia Anna sono stati accompagnati a casa mentre i due figli Mirko e Mario con il cugino Mino e un altro di famiglia hanno portato a spalla la bara, hanno scortato il carro funebre sino al cimitero di Sava dove sarà seppellito questa mattina. Un giustificato impedimento, questo, che consentirà alla moglie e al figlio Mario Vanacore di non presentarsi all’udienza romana fissata per oggi del processo per l’uccisione di Simonetta Cesaroni dove è imputato il suo ex fidanzato e dove i tre Vanacore erano stati convocati a deporre in qualità di teste.
Nazareno Dinoi
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