Demetra, “la papagna” e il sacro rituale di guarigione dei bambini
Nel mito di Demetra raccontato da Ovidio, quando nel suo pellegrinare alla ricerca di sua figlia Kore rapita da Ade, la dea giunge ad Eleusi sotto mentite spoglie (con sembianze di una vecchia), presso la capanna del vecchio Celeo e di Metanira, si prende cura del piccolo Trittolemo che giace ammalato nella sua culla, e ne diventa nutrice.
Demetra ha incontrato Celeo, che le racconta di quanto suo figlio Trittolemo sia malato e come non riesca a prendere sonno, e passi le notti sveglio in preda a dolori. Prima di giungere alla capanna, la dea si ferma a raccogliere papavero da oppio:
“… illa soporiferum, parvos initura penates, colligit agresti lene papaver humo” (“ – e la dea, prima di entrare nell’umile capanna -, raccoglie dal suolo agreste delicato papavero dalle virtù soporifere”)
La dea, nel cogliere il papavero, interrompe involontariamente il suo voto di digiuno, ingerendolo :
“dum legit, oblito fertur gustasse palato longamque imprudens exsoluisse famen” (“Si dice che nel coglierlo, lo gustò con immemore palato rompendo involontariamente il suo lungo digiuno”)
Giunta insieme a Celeo sulla soglia della capanna, la dea vede tutta la famiglia in preda alla disperazione: per il bambino sembra che non ci sia più alcuna speranza di salvezza (“limen ut intravit, luctus videt omnia plena; iam spes in puero nulla salutis erat”).
A questo punto ha inizio un rituale di guarigione che ha moltissime assonanze con alcuni rituali tipici della cultura popolare locale. Si mescolano gesti tipici dei rituali locali di guarigione per il “fascinus” o “fascinazione” (a Sava “‘nfascinu”), con la cura a base di oppio utilizzata per calmare o far dormire i bambini, tipica anch’essa della nostra cultura contadina:
“matre salutata (mater Metanira vocatur) iungere dignata est os puerile suo. Pallor abit, subitasque vident in corpore vires: tantus caelesti venit ab ore vigor” (“salutata la madre (che aveva nome Metanira), si degnò di unire la bocca del fanciullo alla sua. Il pallore scompare e d’un tratto vedono il corpo riprendere forza. Tanto vigore provenne dalla bocca divina”).
In una delle numerose varianti del rituale locale atto a sconfiggere il “fascinus” la guaritrice crea un contatto tra la propria bocca e il corpo del bambino baciandone la bocca oppure ungendo la fronte del bambino della propria saliva (questo atto fa parte sia di rituali di tipo esplorativo, che riparatorio). I sintomi del bambino “infascinato” sono: progressiva debolezza, stordimento, dolori, insonnia, febbre, pallore, e si fanno sempre più intensi, sino a provocare la morte, se il “fascino” viene trascurato. Il piccolo Trittolemo manifesta una sintomatologia molto simile, e, come nel rituale del “fascino”, dopo l’intervento di Demetra il pallore, sintomo tipico, scompare, e con esso il deperimento, e infatti il bambino riacquista le forze.
A questo punto i genitori e la sorella di Trittolemo si rallegrano, e subito imbandiscono vivande offrendo a Demetra di partecipare al banchetto. Ma Demetra se ne astiene e continua a curare il bambino, somministrandogli un infuso a base di papavero:
“….Abstinet alma Ceres, somnique papavera causas dat tibi cum tepido lacte bibenda, puer”6 “….ma non mangia la santa Cerere, e ti dà, fanciullo, infuso di papaveri che procurano il sonno, da bere con latte tiepido”.
Il rituale si conclude con una operazione che Demetra compie per rafforzare la salute del bambino e conferirgli addirittura il dono dell’immortalità (che poi Metanira impudentemente interromperà nella sua parte conclusiva, vanificando così la possibilità data a Trittolemo di diventare immortale):
“Triptolemum gremio sustulit illa suo, terque manu permulsit eum, tria carmina dixit, carmina mortali non referenda sono, inque foco corpus pueri vivente favilla obruit, humanum purget ut ignis onus”7 (la dea prese Trittolemo in grembo, per tre volte lo accarezzò con la mano, pronunciò tre formule, (formule non ripetibili con voce mortale), e nel focolare ricopre il corpo del bambino con cenere calda, perchè il fuoco purifichi il peso della mortalità umana”).
Anche questa parte del rituale compiuto da Demetra ha molte assonanze con i rituali riparatori del “fascino”, nei quali la guaritrice (nella variante a noi pervenuta, con elementi di cristianità mescolati) ripete gesti (come il segno della croce) per tre volte sulla fronte o sulla testa del bambino, pronunciando al contempo una orazione per tre volte. Il ruolo di Demetra guaritrice-”masciàra”-”sfascinatrice” proprio come le anziane donne della nostra tradizione, è chiarissimo in un’ altra delle numerose varianti che raccontano il mito di Demetra a Eleusi, quella pervenutaci come Inno Omerico a Demetra e attribuita, appunto, a Omero. Il ruolo di Demetra, giunta in sembianze di vecchia in casa di Metanira, alla quale la dea si propone come nutrice, è proprio quello di proteggere il bambino da malefici, ed eventualmente rimediare ad essi:
“Di tuo figlio volentieri mi prenderò cura, come tu mi chiedi, lo alleverò, e in verità non credo che, per negligenza della nutrice, mai lo abbatteranno il maleficio, o le erbe velenose: conosco un rimedio molto più forte delle erbe nocive, conosco, per il maleficio funesto, un valido scongiuro”.
Un altro elemento comune tra la “pratica” demetriaca e le pratiche di cura de “lu ‘nfascinu” è il digiuno considerato indispensabile e parte del rito stesso. Nei racconti forniti alle mie interviste, il digiuno è prescritto sia alla guaritrice che all’ ”ammalato”.
Il bacio sulla bocca dato da Demetra a Trittolemo, si è detto, ricorda i rituali esplorativi e riparatori nella pratica del “contro-‘nfascinu” locale, così come anche negli antichi riti sardi, dove il bacio è utilizzato per contrastare l’ “ogu malu” (malocchio) che, come il locale “ ‘nfascinu” può essere “gettato” anche involontariamente.
In antichità la “fascinazione” era molto temuta: ne hanno parlato Cicerone, Plinio, e molti altri autori. I vari rituali, con la costante della ripetizione per tre volte, ad es. l’unzione di saliva o lo sputo, il “despuere malum” verso il soggetto colpito – quasi sempre un bambino, o frasi o orazioni ( sempre ripetute 3 volte), sono un classico nei racconti degli antichi autori intorno alla “fascinazione”, così come il digiuno a cui la “guaritrice” anzitutto (ma a volte anche l’infermo) doveva sottoporsi come parte fondamentale e integrante del rito, e conferente efficacia al rituale stesso.
La guaritrice della nostra tradizione popolare sembra ereditare numerosi elementi del mito demetriaco, tutti centrati nella cura del bambino ammalato e “infascinato”, colpito dal maleficio o ad esso esposto, rispetto alla quale Demetra si mostra “specialista”: come essa afferma nell’ Inno Omerico, è in grado di proteggere il bambino e intervenire su di lui sia a livello preventivo che riparatorio del male (“mai lo abbatteranno il maleficio, e le erbe velenose”, “conosco un rimedio molto più forte delle erbe nocive”, “conosco per il maleficio funesto un valido scongiuro”). Come nella nostra tradizione popolare, Demetra ripete inoltre per 3 volte gesti e formule segrete e “non ripetibili con voce mortale”, ovvero iniziatiche e riservate soltanto alla conoscenza delle sue sacerdotesse.
“Kore”, un nome femminile rimasto in auge nella tradizione savese sino al 1600
Un ulteriore elemento che può farci comprendere quanto il culto di Demetra (insieme con un più vasto “repertorio” di origine pagana) abbia lasciato strascichi nel tempo in Sava e nel più vasto Salento, è nel fatto che sino al 1600 i neonati venissero registrati nei registri parrocchiali con una serie di nomi pagani, tra cui “Kore”, nomignolo vezzoso dato dalla stessa Demetra, come ci racconta il mito, alla figlia Persefone.
Il Coco ci dà notizia, nei suoi “Cenni storici di Sava”, della visita in Sava di Marco Antonio Parisi, Vescovo della Diocesi di Oria dal 1632 al 1649. La visita vescovile in Sava avviene nel 1633, a un anno dall’inizio del vescovato di Parisi, e in quella occasione il Parisi si affretta ad emanare un decreto nel quale “si dovesse eliminare l’abuso” di chiamare i neonati con nomi “strani” e di chiara matrice pagana. Il problema persiste evidentemente sino al vescovato di Monsignor Kalefati (1781-1794), se, come traspare dalle pagine del Coco, questo vescovo che succede al Parisi dopo ben altri otto vescovati, riaffronta in qualche modo la questione – forse minimizzandola – ma definendo “curiosi” questi nomi. Nel nutrito elenco di tali nomi pagani riportato dal Coco a pag. 122 dei suoi “Cenni storici”, appaiono nomi maschili e femminili, la maggior parte dei quali di chiara derivazione sia magno-greca che romana: tra questi, il nome femminile Core con il quale venivano registrate diverse fanciulle.
Le sacerdotesse di Demetra – Cerere
Nel culto di Demetra il ruolo svolto dalle donne e dalle sacerdotesse è fondamentale e predominante. Analogamente, nei rituali magico-popolari, le officianti sono le donne. La donna è depositaria dei segreti delle formule e dei riti che vengono tramandati esclusivamente in linea femminile, e solo a lei spetta esercitare il rito. La donna inoltre, è colei che è più esposta al rischio del sortilegio ma è anche colei che esercita il sortilegio stesso in modo più potente, e questa è una costante che si riscontra in Puglia come nelle isole. Sempre in linea femminile vengono ereditati gli oggetti magici (gli amuleti) che hanno un corrispettivo negli hiera, gli oggetti sacri dei culti demetriaci. Gli hiera dei culti demetriaci sono stati spesso identificati come composti da svariati simboli tra cui, in larga misura, quelli fallici, esattamente come i cornetti utilizzati come amuleti nella prevenzione e nello scongiuro del “fascinus” e come i più espliciti amuleti fallici romani dedicati sempre al “fascinus”.
Le sacerdotesse celebranti le Thesmophòria di Demetra, denominate anche melissai (api), sembra che utilizzassero una bevanda sacra a base di miele mescolato con acqua, elemento che ricorda uno dei composti della “papagna” utilizzato nella nostra tradizione locale (semi di papavero mescolati con altre erbe, e miele in abbondanza per addolcire l’infuso).
Le donne depositarie di arti magiche e guaritrici nella nostra tradizione contadina hanno svariati aspetti, a volte fusi e interscambiabili tra loro, a volte distinti: la “masciàra” (nel leccese macàra) è esperta di erbe, riti segreti e incantesimi, può provocare il male ma anche guarire, può seminare siccità, perturbazioni e danneggiare i raccolti, ma anche favorire una buona semina, una buona crescita delle piante, può influenzare positivamente il clima, e rendere produttivo e prosperoso un campo. Analogo potere lo hanno Demetra e le sue sacerdotesse. La “guaritrice” cura in particolar modo i bambini dagli influssi del “fascinus” e fa loro da benevola nutrice, utilizzando arti magiche, misture di erbe, e riti segreti, come fa Demetra con Trittolemo.
Demetra triforme si manifesta negli aspetti della Erinni furiosa per la perdita della figlia Persefone, della madre–nutrice benevola e compassionevole, e di Ecate divinità lunare e dei morti, conoscitrice e dispensatrice di arti magiche e iniziatiche. Le masciàre e le guaritrici pugliesi e salentine incarnano, a volte fusi insieme, a volte separatamente, questi aspetti e queste “facoltà”.
Le tradizioni magico-popolari con svariate arti divinatorie, di guarigione e divinazione esercitate dalle donne sono comuni a tutto il sud, compresa la Sicilia, ove ancora si conservano nei paesi contadini i rituali tipici. Culti di Demetra-Cerere si estendono e rivestono grande importanza nell’antichità in Basilicata (ove sorge tra gli altri il tempio di Policoro dedicato a Demetra), in Calabria (Tempio di Locri) : tutte queste regioni hanno in comune pratiche magiche molto simili tra loro e ricollegabili ai culti demetriaci. La Sicilia è considerata patria di Demetra e Kore (con le tracce degli importanti templi rinvenuti a Enna, Morgantina, Agrigento, Gela) e della romana Cerere, tanto che Cicerone riteneva che tutta l’isola siciliana fosse consacrata a questa divinità.
Sempre secondo Cicerone, le sacerdotesse romane dedite al culto di Cerere presso l’Aventino, provenivano esclusivamente dal sud.
Gianfranco Mele