“Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro” (F. Nietzsche).
Non siamo a quel livello, ma l’introspezione che regge la trama de “Il canto della nostalgia” molto gli si avvicina.
L’ultima opera di Tonino Filomena si discosta notevolmente dalle precedenti sue narrazioni letterarie, sia nell’approccio al racconto, sia nel metodo.
Intanto l’approccio: non più, o non solo, narrazione fattuale rimodulata sulla scorta dell’intensità dei propri sentimenti che è stata finora la costante ( o forse la musa ispiratrice) dell’autore.
Poi il metodo narrativo: non più storico e non più rigorosamente scandito da tempi e periodi definiti e conseguenti.
Lo stile narrativo, quello sì, rimane immutato nella cifra emotiva che suscita nel lettore.
Questa ultima fatica letteraria è una indefinita altalena fra una dimensione sicuramente temporale (“…I rintocchi delle ore sono stati da poco scanditi dalla campana dell’antica Torre dell’Orologio…”) e un’astrazione volutamente a-temporale nella quale l’autore si abbandona volontariamente e completamente alle ingannevoli lusinghe dalla “nostalgia” (“Qui, in questo spazio senza Tempo, dove ogni cosa è svanita nel buio, la mia anima non riposa. …”).
E in questo oscillare fra il tempo reale – profondamente segnato dalla pandemia dilagante che inibisce la frenesia evolutiva del genere umano – e il non-tempo della nostalgia (quasi idealizzata a medicina antivirus) si snoda l’amaro, rabbioso, lancinante ritorno al futuro dell’Autore alla ricerca di riferimenti riposanti, ristoratori, di figure confortanti, di vissuto sicuro, sui e nei quali ritrovare la malcelata speranza di nuovi/antichi equilibri nei rapporti interpersonali.
Il desiderio di riabbracciare il fratello lontano; la speranza di rivedere un conoscente bloccato anch’esso oltre i confini del paese natio così come tanti altri amici costretti in luoghi lontani dall’imperante lockdown, frammista alla gioia di aver rivisto e riabbracciato invece alcuni amici-compagni del tempo che fu; il ricordo spiazzante di un amico prematuramente scomparso; la voglia struggente di rivedere e rivivere la materiale presenza della madre e del padre (tanto struggente da sconfinare in un’apparente blasfemia: “…Era dolce e imprevedibile mia madre…la sua anima riposa in pace…voglio sapere dov’è… chiedo al Dio dei credenti… perché a me non ha dato la fede ?…”), non vanno equivocati come fughe dalla realtà, ma letti come riaffermazione di valori intramontabili e imprescindibili (famiglia, amicizia, socialità).
Valori antichi, non vecchi. Valori da ripensare e rinverdire specialmente nei momenti meno favorevoli della vita di ognuno di noi. Valori da trasmettere con urgenza ai più giovani, le più vulnerabili e inconsapevoli vittime della “desertificazione valoriale” della società globalizzata e internettizzata.
Non so dire se l’Autore ha inteso esprimere intenzionalmente quei valori, e francamente poco o niente rileva in questo momento: poiché i libri sono “strani prodotti” che, una volta scritti, perdono il significato loro attribuito dall’autore e finiscono con l’essere ciò che suscitano nel lettore.
E, io, sono un lettore.
“Il Canto della Nostalgia” è un libro per tutti?, indubbiamente sì.
Ma mi piace pensare che possa esserlo in modo particolare per i giovani, quelli che stanno vivendo e costruendosi ora il proprio “passato”, un passato in cui rifugiarsi e ristorarsi nei momenti-no del loro futuro da “adulti”.
Maruggio, 20 luglio 2020 Peppino Marino
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