mercoledì 25 Dicembre, 2024 - 7:59:42

Il canto popolare di Salò in una antropologia dei linguaggi (Uno studio senza i veli delle ideologie: “E’ partita una tradotta”)

Il canto popolare è l’antropologia di una conoscenza di una temperie. Resta nell’immaginario. Si fa memoria e si fissa nel tempo. Antropologia come antropos. Tra civiltà e popoli. Tra il canto popolare e i racconti dei vincitori e dei vinti. Anche negli studi di Giuseppe Pitré (Palermo, 22 dicembre 1841 – Palermo, 10 aprile 1916) si avverte la lezione di lavorare costantemente sul campo. Con il materiale bisogna raccontare la storia di un popolo e soprattutto con il canto popolare.

I canti popolari della Resistenza e del Risorgimento sono parte integrante di un bene demoetnoantropologico. Pongono in essere un modello di cultura popolare che rispecchia la storia all’interno di un vissuto, di una temperie e di un contesto. Sono parte integrante della storia dei “vincitori” andando a costituire un patrimonio di ciò che la storia e la cultura hanno rappresentato a partire dal 1860 fino al periodo del post-fascismo (1945).

I canti risorgimentali, beni etnoantropologici appartenenti alla cultura popolare, possiedono una caratteristica che varia in una articolazione ben definita da territorio a territorio e da regione a regione.
I canti del brigantaggio, quelli borbonici e del Regno di Napoli rientrano nella misura del “canto popolare demo-etnoantropologico”, sebbene storicamente ci troviamo all’interno di una visione in cui il tempo viene vissuto come tempo di una memoria passata che riascoltiamo attraverso le attestazioni di parole e musicalità.

Così i canti della Repubblica Sociale di Salò, i quali costituiscono un patrimonio esemplare di una linguistica associata alla antropologia del costume e della storia in una temperie molto complessa e difficile.

I canti della Repubblica Sociale di Salò sono parte integrante di un patrimonio culturale di una Nazione. Andrebbero meglio studiati proprio dal punto di vista antropologico e non meramente politico. Il canto popolare è parte integrante della espressione di una comunità e sarebbe importante verificare il legame tra canto popolare di Salò e modello antropologico.

Un legame sul quale sto lavorando con molta attenzione e interesse attraverso uno studio che riguarda: “E’ partita una tradotta. Salò e il canto popolare repubblichino” partendo da alcuni versi che echeggiano:

“E’ partita una tradotta,
tutta piena di diciott’anni,
visi freschi, cuori spaccati
dalle granate dell’allegria.
Hanno preso la via del mare
questi giovani in grigioverde
col prurito nelle mani
e l’amore nei tascapani” (da “E’ partita una tradotta”, un canto Inno del reggimento GG.FF. , giovani fascisti che combatterono a Bir-el-Gobi)
.

La storia non conosce parentesi, affermava lo storico Renzo De Felice. La storia non può avere parentesi se si vuole comprendere fino in fondo l’identità di una Nazione, parimenti è necessario cercare di studiare, in modo attento, i canti del prefascismo e del Fascismo al di là delle ideologie.

Molti canti del Fascismo, come “Giovinezza” e così via, sono propriamente prefascisti. Il linguaggio stesso creato da D’Annunzio è un linguaggio pre-nazionalista.
Non si può sostenere la tesi di un D’Annunzio Fascista e riparlare del più grande scrittore del Novecento uno scrittore da Indice.
L’intera opera di D’Annunzio nasce prima del Fascismo. Come si può additare a D’Annunzio l’essere stato Fascista? Si potrebbe addirittura capovolgere il discorso, ovvero che il Fascismo recupera il linguaggio dannunziano.

I vari concetti espressi da D’Annunzio nelle sue canzoni, o nei motti, sono parte integrante di un patrimonio nazionale perché D’Annunzio resta il punto di riferimento cruciale nel passaggio epocale, non tra due forme ideologiche, bensì tra due epoche.
Ecco perché è necessario approfondire questo aspetto, del resto la canzone “Bella ciao” non nasce certo con la lotta partigiana, ma è pregressa, recuperata nell’ambito di un preciso momento storico.

Ma hanno una loro autonomia come il canto che dice:

“Fanciulle della via
sorridete ogni or
la terza compagnia
per voi canta in cor…” (da “La terza compagnia”).

Oppure quella più conosciuta che ha un canto e un contro canto da uomini e donne:

“Le donne non ci vogliono più bene
perché portiamo la camicia nera.
Hanno detto che siamo da catene,
hanno detto che siamo da galera!
L’amore coi fascisti non conviene…”.

Rispondono le donne:

“Le donne non vi vogliono più bene
perché portate la camicia nera.
Non vi crucciate: cosa da galera
Fu giudicato Cristo, e da catene!” (da “Le donne non ci vogliono più bene”).

Oppure il canto dei Legionari, conosciutissimo: “Faccetta nera…”.

Desidero ragionare in termini prettamente culturali e antropologici. Percorrendo un discorso etno-liguistico ci si rende conto come le ideologie abbiano poco a che vedere con l’invenzione di un canto popolare.
É l’ideologia, a volte, ad impossessarsi del canto popolare, è questo il dato di fondo.
Il brigantaggio non diventa ideologia in sé attraverso il canto dei briganti, attraverso la canzone di Ninco Nanco. È la conseguenza di un processo e di un percorso interattivo al cospetto di queste visioni.

Dobbiamo avere la capacità e l’intelligenza di proteggere questo patrimonio. Salvaguardare il patrimonio identitario della “canzone popolare” significa smarcare le forme politiche di vinti e vincitori, creando così un unicum con le distinzioni di una cultura prettamente popolare che appartiene a tutti.
I canti popolari, entrando nella storia, esercitano una funzione di conoscenza e, allo stesso tempo, psicologica ed esistenziale.

L’antropologia ha matrici nella storia. Attraverso la capacità di comprendere la funzione che i popoli hanno avuto abbiamo la possibilità di lasciare un segno tangibile alle nuove generazioni, che dovranno confrontarsi con questo percorso, non soltanto sul piano antropologico, ma anche sul piano culturale tout court, in senso generale, e storico.
Il canto risorgimentale, quello dei briganti, della Resistenza, quello prefascista che diviene poi icona del Fascismo e i canti della Repubblica di Salò che vengono recuperati dal prefascismo hanno la medesima funzione?
Ritengo di sì sul piano antropologico.

Credo sia necessario dare una funzione prioritaria a queste chiavi di lettura.
Un simile discorso può essere applicato alle lettere dal carcere, sia da una parte che dall’altra, aventi funzioni caratterizzanti di un tempo e di una storia.
Per il loro carattere di testimonianza vanno inserite all’interno di un contesto prettamente culturale, di analisi e interpretazione antropologica.

L’antropologia non deve avere ideologia né appartenenze, bensì contenuti che si recuperano mediante questa visione di identità all’interno della tradizione.
La forma d’identità nazionale è fatta di queste componenti che sono storiche e che appartengono a un vissuto di popoli, di uomini e di appartenenze.
La centralità delle antropologie sta nella conoscenze dei popoli.

Pierfranco Bruni

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