INTRODUZIONE
Il metodo di cura popolare a noi più noto, e sicuramente il più diffuso (almeno a partire da un dato momento storico) nei confronti di tarantate e tarantati era il rituale cosiddetto musico-terapeutico esercitato all’interno della dimora del “paziente”. Vi sono tuttavia altre forme, come la balneazione che ho descritto in un mio precedente articolo intitolato “Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua”.[1] Lo stesso rito del ballo al chiuso delle mura domestiche, in precedenza si svolgeva presso strade e crocevia, e ancor più anticamente in ambienti naturali di tipo arboreo o acquatico.[2] In ambito salentino, una forma più tardiva si manifestò nel pellegrinaggio verso la chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, rito che giunse anche (tuttavia non in ogni paese) a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare. Ovviamente, nei confronti dei tarantati vi erano anche interventi di tipo strettamente medico e perciò affidati alle mani dei dottori, anche se non riscuotevano molto successo, tanto che alcuni medici stessi indicavano la musica e il ballo come rimedio d’elezione. Un’altra figura che si arrogava il potere di intervenire, era però quella dei maghi cosiddetti “cirauli”, “sanpaolari”, “carmati”, ecc., i quali, oltre che “specializzati” nell’intervento verso chi era stato morso o invaso da rettili, venivano chiamati anche a risolvere casi di tarantismo, tanto che un altro dei loro appellativi citati dal Vergari è proprio tarantolari.[3]
Il Pitrè riporta a proposito dei personaggi detti cerauli, il seguente passo tratto da uno scritto del XVII secolo di tal Natale Lo Gatto: « Li cerauli nascono la notte di S. Paolo Apostolo e hanno una tarantola supta la linguella: li medesimi addimesticano omni sorte di serpi, e sanno indovinare la ventura, come io medesimo provai in persona mia che un ceraulo nomato mastro Rosario Pennuto de la terra di Buxema mi predisse che a la etate di 15 anni mi doveva accadere una grande disgratia: e fu davvero che ebbi rotta una gamba per uno calcio di mulo e fu miracolo di S. Francisco e di S. Pasquale, protettori de la nostra casa, che non restai zoppo».[4] Sono dunque, i suddetti “maghi”, anche incantatori e indovini. Ne ho parlato abbondantemente in un precedente articolo dal titolo “Cirauli, sanpaolari: i maghi serpentari del sud” al quale rimando.[5] Qui, riprendo solo alcuni dei suoi contenuti, per ricordare che mentre i termini “ceravoli”, cerauli”, “ciarauli” et similia sono utilizzati prevalentemente in Sicilia e in Calabria, in Puglia si usa “sanpaolari”, anche se a quanto pare il termine è di recente conio: più anticamente, si usava chiamarli pauliani, ceraldi, cerratani, ceramati, carmati. Si tratta, in ogni caso, di figure che forse sono retaggio e prosecuzione di più antiche categorie di “maghi-guaritori” che hanno origine ai tempi del paganesimo, e che in secoli successivi sono “cristianizzate” attribuendo a San Paolo discendenza e/o origini dei loro presunti poteri.
In questo articolo, riporteremo per intero un documento dei primi dell’ Ottocento riferito al singolare intervento di un ciraulo nei confronti di due persone “morsicate dalla tarantola”.
LE OSSERVAZIONI SUL MORSO DELLA TARANTOLA DEL MEDICO OTTOCENTESCO GAETANO SPIZZIRRI
Nel n. 19 del 1 ottobre 1827 della rivista “L’Osservatore Medico” appare un articolo firmato da Samuele Spizzirri, allievo in medicina e nipote del medico calabrese Gaetano Spizzirri: si tratta del resoconto di due casi di tarantismo osservati dallo zio del giovane medico. In questo frangente la cura non era stata realizzata dal medico, ma dai cirauli o ciraulari calabresi e lo Spizzirri era semplicemente testimone oculare dell’accadimento. Nel luglio del 1826 un giovane di Marano (CS) viene morsicato da due tarantole mentre lavora nei campi. Segue, nella narrazione, la descrizione di una serie di sintomi conseguenti il morso, tra i quali un continuo “tremore convulsivo” che spingeva l’infermo a danzare. Vano è l’intervento di un chirurgo che applica nella parte colpita (l’avambraccio sinistro) “un bottone rovente” : a quel punto, il padre del ragazzo manda a cercare un Ciraularo il quale, dopo aver pronunciato dinnanzi al malato i suoi segreti carmi, interviene con manipolazioni e con una terapia consistente in un bagno di vapori di vino nel quale aveva fatto bollire una serie di erbe (il medico che assiste all’intervento riconosce unicamente, tra queste, il Rosmarino). Il giovane guarisce in tre giorni.
Il secondo resoconto, riguarda un quarantenne, sempre di Marano, che viene curato anch’egli dal ciraularo con lo stesso metodo.
«Alle ore 12 italiane di uno degli ultimi giorni di luglio 1826, mentre un giovane di marano, di anni 20, di nome Leopoldo Morrone, di temperamento poco irritabile, attendeva, nel luogo detto S. Antoniello, a caricare dei fasci di lino sul suo somaro, vide su di uno di essi fasci due animaletti della grandezza di un grosso ragno, ed a questo molto simili, uno però di variati colori, e bello, come egli si espresse, e l’altro vergente al nero, ai quali non facendo alcuna attenzione, proseguì la sua bisogna. Non appena però egli cominciò a stringere le funi sul carico, che intese un acerbissimo, e bruciante dolore nella estremità dell’avambraccio sinistro, precisamente al sito in cui dai medici si tasta il polso, dove senza veder vestigio di morsicatura alcuna, osservò esser depositata una goccia di umore acquoso giallognolo, alla quale attribuendo, a giusto titolo, l’insopportabile doglia, si affrettò di toglierla su di un fazzoletto. Non ostante, lo spasimo, colla celerità del fulmine si propagò sotto l’ascella, e ginocchio dello stesso lato, e facendo il medesimo cammino nel lato opposto invase finalmente tutte le ossa, che l’infelice sentivasi, giusta le sue espressioni, come se gli venissero svelte con una tanaglia. Non potendo reggersi in piedi, l’infermo, sdraiossi sul suolo: un generale e convulsivo dolore agitava tutta la macchina; freddo, e giallognolo sudore coprì la superficie del corpo; ed un consimile umore grondar si vedeva dalle narici: grande meteorismo. In questo stato, aiutato dai suoi compagni, fu messo su di un somaro, e trasportato in Marano, verso le due della notte. E’ da notarsi che quando l’asino camminava si sospendeva il tremore convulsivo; e quando si arrestava l’infermo era stimolato a danzare.
Giunto in Patria un Chirurgo applicò tosto sulla parte un bottone rovente; ma senza alcun successo, ed anzi il fuoco non venne né anche avvertito.
Il padre del paziente avendo una cieca fiducia in taluni cerretani di Mendicino, conosciuti col nome di Ciraulari, mandò tosto a cercare il più perito, il quale non appena giunto pronunciò i suoi superstiziosi carmi; applicò con la man dritta, dapprima sulla coscia sinistra, e quindi sulla dritta, e quasicchè tocco dalla mano di Medea, cessa come per incantesimo nel paziente il tremore, da prima nel sinistro, e quindi nel dritto lato; risultamento, che noi lasciamo alla considerazione del lettore per decidere, se debba o no attribuirsi alla morale influenza. Ciò ch’è certo però è che il villano Esculapio avendo fatto prendere al suo infermo, precedentemente coperto con mantello di lana, un bagno dei vapori di vino, dentro del quale avea fatto bollire, in vase di rame, le sue eroiche erbe, tra le quali noi potemmo distinguere il rosmarino, l’infermo al terzo giorno si ritrovò guarito, senza aver preso internamente altro rimedio che un bicchiere di succo di puleggio che gli defaticò lo stomaco.
Vincenzo Vena di Marano, di anni 40 di temperamento mediocremente irritabile, essendosi, nel medesimo sito di S. Antoniello, abbassato a prendere una spiga di granone, caduta dentro una pianta di fagioli, fu nello stesso luogo del primo morsicato da un animaletto di color nerastro, ch’avendo egli ucciso coll’altra mano, si potè ben conoscere essere una tarantola. Come nel caso precedente egli sentì immediatamente un acerbissimo dolore, il quale si estese dal punto della morsicatura sino all’ascella corrispondente, occupando però una sola linea, la quale divenne tutto ad un tratto gialla: né alcun dolore si fece sentire in altre parti del corpo. Il paziente era ansioso di cambiar luogo, e di muoversi sollecitamente saltellando.
Egli si affidò alle cure del medesimo cerretano dal quale nello stesso modo del primo fu guarito.»[6]
La terapia operata nei confronti di questi due tarantati si discosta dunque da quella più frequente e conosciuta, consistente nel rituale della musica e della danza (presente anche in area calabrese[7]): vi sono d’altro canto alcuni elementi in comune che descriveremo. Si tratta in questo caso di un rituale medico-magico (carmi uniti a rimedi medicinali naturali), finalizzato, nella parte più strettamente “medicinale”, a provocare la sudorazione nell’ammalato. Qui, già si ritrova un elemento in comune con il rituale musico-terapeutico, giacchè nella interpretazione non solo di diversi medici dei tempi, ma anche, spesso, nella spiegazione popolare, la danza era finalizzata a provocare sudorazione nel tarantato/a e dunque a sfogare, ad “espellere il veleno”. Stesso scopo avevano le balneazioni delle quali abbiamo abbondantemente riferito nell’articolo “Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua”. Il passaggio, poi nel quale lo Spizzirri sottolinea che “l’infermo era stimolato a danzare” costituisce un altro elemento in comune con il comportamento del tarantato “classico”: da notare che non necessariamente è da intendersi tale impulso come risposta rituale appresa, quanto forse e piuttosto come risposta scatenata dalle neurotossine presenti nel veleno del Latrodectus tredicimguttatus, che di fatto provocano fra gli altri sintomi quello dell’agitazione psicomotoria.
Il trattamento operato dal ciraulo calabrese inoltre appare identico a quelli suggeriti dal medico neretino Achille Vergari (1791-1875):
“Dopo curata la parte, i morsicati si facciano stare in letto, facendo lor prendere decozioni diaforetiche, di rosmarino, di foglie d’aranci, di melissa, d’issopo, di serpillo, di edera, di salvia, di ruta, di fiori di viole, di tiglio, di sambuco ec. Con gocce d’ammoniaca liquida. Taluni hanno usato con successo il vino poderoso, e l’alcoole, soli o con teriaca o con polvere di roccasecca”[8]
Egualmente, il medico siciliano Giovanni Meli (1740-1815) cura il caso di un sacerdote morso dal ragno (e nei confronti del quale addirittura fallisce un tentativo di intervento da parte di musicanti componenti di una banda), provocando la sudorazione del malato attraverso l’inalazione di vapori ottenuti facendo bollire “un mezzo barile di vino unitamente allo rosmarino, alla salvia, alla ruta, alle fronde di frassino, alla radice di genziana, allo scordio, all’abrotano e ad altre erbe amaricanti”. [9]
Invece, in un altro caso di tarantismo calabrese descritto da Filippo Iacopo Pignatari nel 1895, al rituale musicoterapeutico a suon di tamburelli, organetto e chitarre battenti, che pure ha successo ma non risolve completamente, segue terapia medica con due bagni caldi prescritti ed eseguiti a distanza di 10 ore l’uno dall’altro.[10]
L’ “arte” dei cirauli, almeno nei casi descritti dallo Spizzirri, appare dunque, e come abbiamo già detto, una combinazione tra pratiche magiche (nella parte dedicata ai carmi) e rimedi medici diffusi a quei tempi (e ripresi, a loro volta, da metodi più antichi di cura dei morsi degli animali velenosi). La loro “terapia” perciò, nella parte che impiega come diaforetici i vapori bolliti di vino ed erbe (tra le quali il rosmarino), non si discosta molto da quella operata dal Vergari, il quale, curiosamente, pur citando nella sua opera il resoconto dello Spizzirri (“Nell’Osservatore Medico del 1 ottobre 1827 […] si leggono due osservazioni de’ dottori Spizzirri di Marano, in Calabria Citeriore, dalle quali si rileva la velenosità de’ morsi delle tarantole”)[11] sembra non focalizzare molto l’attenzione sulla somiglianza del rimedio e sulla centralità di questa parte della terapia operata dai cirauli, dal momento che alcune pagine dopo scrive: “le cure che si predicano eseguirsi dà così detti Tarantolari, Ciarauli, Benedetti di S. Paolo ecc., succedono in forza di segreti e del magnetismo animale”.[12] Il Vergari perciò concentra la sua attenzione maggiormente nella parte dell’intervento dei cirauli che utilizza le orazioni segrete e le tecniche in qualche modo simili a quelle teorizzate dal Mesmer e dai suoi successori.
Trattato sul magnetismo animale, 1843
- Gianfranco Mele, Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, Fondazione Terra d’Otranto, novembre 2019 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/ ↑
- Ibidem ↑
- Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, Stamperia Società Filomatica, 1839, pag. 36 ↑
- Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo sciliano, vol IV, Barbera, Firenze, 1952, pag. 227 ↑
- Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari: i maghi serpentari del sud, La Voce di Maruggio, ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/cirauli-sanpaolari-i-maghi-serpentari-del-sud.html ↑
- Samuele Spizzirri, Osservazioni sul morso della tarantola, del sig. Gaetano Spizzirri, Medico in Marano, in L’ Osservatore Medico, Giornale di Medicina e delle Scienze Affini, Anno V n. XIX, 1 ottobre 1827, pp. 145-146 ↑
- Goffredo Plastino, Sul tarantismo in Calabria, Academia.edu https://www.academia.edu/31297099/Sul_tarantismo_in_Calabria_1990_1991_ ↑
- Achille Vergari, op. cit., pag. 33 ↑
- Giovanni Meli, Capitolo di lettera in cui si descrivono gli effetti estraordinari del veleno d’un Ragnatello, in A.M. Spadafora, “Opuscoli di autori siciliani”, t. XII, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, 1771 ↑
- Filippo Iacopo Pignatari, Tarantola, tarantolati, tarantella in La Calabria, anno VII, 1895, n. 12, pp. 89-91 ↑
- Achille Vergari, op. cit., pag. 27 ↑
- Achille Vergari, op. cit., pag. 36 ↑