Riceviamo e pubblichiamo l’intervento della scrittrice Marilena Cavallo che, nel cinquantesimo della scomparsa di Albert Camus, scrittore in rivolta, ne ha voluto ricordare la figura.
Il 4 gennaio di cinquant’anni (1960) fa moriva Albert Camus. Era nato a Mondovi il 7 novembre del 1913. Uno scrittore consacrato alla letteratura attraverso una visione di esistenzialismo prima considerato ateo, poi laico, poi semplicemente esistenzialismo legato al pensiero dell’umanesimo e della classicità intrecciata tra mito e simboli. Prima marxista. Successivamente forte contestatore del materialismo storico. Era nato in Francia ma si trasferisce, dopo la morte del padre, insieme alla madre ad Algeri.
Uno scrittore sempre in bilico tra il senso dell’assurdo e i paradigma di una filosofia del dubbio e della costante ricerca aggrappata agli scogli dell’attesa. Uno scrittore contro che ha saputo però ben capire l’inquietudine del tempo moderno che non conosce né riconciliazioni né patti con la speranza ma soltanto accordi con ciò che non può essere vissuto nella reticenza del quotidiano. Oltre ogni reticenza. È questa la misura di ogni frontiera che non si serve soltanto della scrittura – linguaggio ma della vita. La vita è sempre una coincidenza con il tempo. Con il tempo dell’indefinibile ma anche con il tempo delle sconfitte.
Il suo esistenzialismo, dopo la rottura con Sartre o forse anche prima, si legge come modello di una cultura libertaria. I suoi scritti sono una testimonianza emblematica di un fiume che si metaforizza in un mare di intense trascrizioni con il mito. Ma l’uomo resta sempre un uomo in rivolta. La rivolta che si porta dentro e che lacera la crosta del religioso silenzio dell’attesa.
In Camus non si vive l’attesa e tanto meno si lacera il tempo nella ricerca della speranza. Anzi è il dubbio che taglia la storia per incunearsi nel possibile dell’esistenza che diventa amore. L’esistenza è possibile viverla soltanto se si incide con il solco dell’amore. C’è un concetto chiave che va oltre il tempo stesso ed è quello che recita con queste parole: “Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare”.
Nel 1947 pubblica “Lo straniero”. Un testo che si presenta ancora oggi di sicura e necessaria attualità. Nello stesso anno esce “La peste”. Nel 1956 “La caduta”. Studioso di Plotino e di Sant’Agostino si inserisce in quel quadro filosofico che ha una segreta spiritualità attraverso la quale non può che porsi un altro problema che è quella certamente della rivolta ma soprattutto della “croce”. È suo un adattamento teatrale ricavato da Pedro Calderón de la Barca dal titolo: “La devozione della croce”. Come è suo un adattamento de “I Demoni” di Dostoevskij realizzato un anno prima della morte dal titolo “Les Possédés”.
“L’uomo in rivolta” esce in Italia nel 1962 e in Francia, invece, aveva visto la luce nel 1951 mentre “Il mito di Sisifo” era stato pubblicato nel 1942. Perché Camus si cerca in Plotino e Sant’Agostino? C’è una inquietudine letteraria che si vive in Camus e che non può essere scissa da quella filosofica e umana. Letteratura e filosofia sono l’algebra di un umanesimo che si pone come centralità tra l’uomo e il sentiero dell’assoluto. Oltre ogni schema.
Proprio in “Il mito si Sisifo” si può leggere: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
Bisogna immaginare. E in questo immaginare la vita non è un resto. È piuttosto la supremazia dell’assoluto. In questa direzione si potrebbe offrire una chiave di lettura di un Camus certamente esistenzialista ma dichiaratamente proteso verso quel segno del destino che ha inciso tutto il suo esistere tra l’inquieto, il dolore, il mistero e un kafkiano gioco della provvisorietà e dell’imprevedibilità.
Muore in un incidente stradale dopo aver detto, qualche tempo prima, che morire in un incidente stradale è la cosa più sciocca che possa capitare. Nelle sue tasche gli viene trovato un biglietto ferroviario. Quel giorno doveva viaggiare con il treno. Chissà perché decide di incamminarsi con l’auto lungo la strada di Villeblevin,. Insieme a lui muore anche il suo editore Gallimard.
In “L’uomo in rivolta”, qualche anno prima, aveva scritto: “Oggi nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L’uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”.
Questo sentire il dolore del mondo è nell’intreccio tra la caduta e la rivolta. Per vivere il senso della rivolta bisogna comprendere fino in fondo il senso della caduta. Per ripetere ciò che è stato detto: tutto ha un seno. Per Camus, leggerlo oggi, gli orizzonti metafisici non sono più un assurdo. Plotino e Sant’Agostino sono nella rivolta di un esistenzialismo che ha una voce nell’umanesimo della vita. Tre anni prima della morte, Camus è premio Nobel per la letteratura.
Marilena Cavallo
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