E’, insomma, giunta l’ora di mettere qualche necessario punto fermo alla concezione fotografica, per evitare lo smarrimento della qualità in una spropositata e inevitabilmente nociva quantità, in questo nostro ipertrofico mondo.
E’ una chiave di lettura importante, quella che impone di fermarsi a riflettere per comprendere non solo il senso e la direzione della fotografia contemporanea, ma soprattutto il senso e l’effetto del proprio fotografare, oggi che, in un istante, possiamo rendere qualsiasi cosa immagine, con tutto quello che ciò comporta. Certamente, se tutti coloro a cui si attribuisce la definizione di “fotografo”, si soffermassero ad una tale esegesi concettuale e spirituale, si potrebbero evitare orrori mediatici, che travestiti da spirito di condivisione sociale, vanno a produrre degli sterili “freaks” fotografici, che soddisfano solo una visione dominante dai tratti tragicamente celebrativi, dell’esatto opposto di quello che la fotografia, in effetti, sia. Per non parlare dell’uso smodato di accompagnare l’immagine fotografica con sottofondi musicali o obbrobri didascalici, al fine di scongiurare artificialmente quella paura del silenzio, paura che nasconde un altro più significativo timore: il terrore di non saper accettare l’horror vacui, l’abisso, il non senso, che in genere comunica ogni fotografia, anche la più realistica. E poiché, l’immagine fotografica, fortunatamente, non produce significati e non può veicolare contenuti, ecco che si tenta di anestetizzare la sua parte significante e autenticamente sovversiva con dei suoni o parole, che costringano il fruitore a rintracciare un possibile senso imposto, indotto, profondamente umiliante per la purezza dell’elevata essenza artistica dell’immagine.È chiaro che un dialogo linguistico tra fotografia, musica e parole sia possibile, ma è altrettanto chiaro, che questo rapporto non possa esaurirsi in un’ingenua e infruttuosa commistione, priva di elaborazione concettuale e poetica.
Nelle foto di musica, della personale di Domenico Semeraro esposte nel concept di “Intrecci d’Arte”, organizzato qualche settimana fa dall’Associazione Culturale “Programma Cultura”, il gesto musicale diventa vivo e intenso, le forme e le luci ci permettono di assaggiare estetiche, che nella vita di tutti i giorni sfuggono. Adesso la musica si vede e le fotografie suonano e tutto sembra così naturale. Ma ecco, è proprio qui il segreto dell’incontro magico tra l’occhio e l’orecchio: la fotografia ha convinto la musica a farsi performance. Qui, l’autore è riuscito a far comunicare e ad intrecciare un linguaggio visuale come la fotografia, che usa i segni della realtà (ma solo i segni, non la realtà effettiva) per rappresentare il mondo, con un’altra lingua, cioè la musica, che si manifesta come astratta e intangibile pianificazione di effetti sonori. Un’opera molto ardita, che non può essere stata elaborata mediante fasi separate e consecutive, ma solo grazie ad un processo di germinazione estetico-formale unitario. Se dovessimo trasportare questa osservazione sul piano fotografico tersicoreo, noteremmo, in maniera lampante, lo stesso impatto percettivo. Per un ballerino il corpo è lo strumento della propria arte. Ad ogni passo, il ballerino è sempre consapevole di ogni suo muscolo, ogni suo tendine e legamento, della tensione di ogni suo centimetro di pelle. Perché il corpo è lo strumento attraverso cui il ballerino porta la sua vita sul palco e la dona ai personaggi che interpreta. La dimostrazione di questo si trova nelle magnifiche fotografie di danza di questa esposizione, che mostrano il corpo per leggere l’anima.
C’è un attimo nel movimento, in cui il passo è vivo e, questo, Domenico Semeraro è riuscito a vederlo ed a catturarlo, prima che ne restasse solo la forma. E’ la luce, che diventa memoria e parte essenziale nell’emozione della forma che disegna. Gli stessi movimenti con una forte luce frontale o con un taglio in controluce descriverebbero due emozioni diverse. Ed è proprio questo che emerge da tutta l’opera di questo artista dell’immagine fotografica, la considerazione della fotografia, intesa non come atto ostensivo, ma quale compagna di vita, talmente rispettata da influenzare le quotidiane pratiche conoscitive, per la sua pervasiva presenza e la sua ineludibile incidenza sulle proprie scelte estetiche ed etiche, traccia, impronta delle collisioni tra la visione reale e la coscienza. Le foto diventano, allora rappresentazioni di quei paesaggi interiori, scoperti attraverso un metafisico viaggio di ricerca, alimentata dalle molteplici dimensioni culturali con le quali l’artista è stato in contatto. A capo dell’intenzionalità dell’autore e si trova il “feedback magico dell’immagine” o, come lo definisce Jean Baudrillard “lo statuto magico dell’immagine”, che nasce da un’illusione, la cui intensità, ricorda il filosofo e fotografo francese, è commisurata alla sua stessa negazione del reale. “Fare di un oggetto un’immagine significa togliere a esso una a una tutte le sue dimensioni: il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il tempo, la continuità e ovviamente il senso. È a prezzo di questa disincarnazione – scrive Baudrillard – che l’immagine acquista potere di fascinazione, che diventa medium dell’oggettualità pura, trasparente a una forma di seduzione più sottile”. Il nostro sguardo sulla realtà, il rapporto tra uomo e mondo è, dunque, mediato dall’obiettivo fotografico e, nell’opinione di Baudrillard, la fotografia è più interessante della realtà perché stimola visioni.
La particolarità della ingegnosità figurativa di Semeraro, sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista espressivo, non si può comprendere soltanto da un’osservazione unilaterale, per questo la sua opera è un invito a seguire un particolare punto di vista, rivolto ai movimenti che richiamano la sua attenzione, vettori di quella capacità di attraversamento psicologico, espresso nella raffigurazione temeraria e audace di uno stupendo impianto compositivo ed evocativo, in quell’ istante casuale di stupore, colto tra due azioni, che ne è essenza vitale, ma che sfugge a tanti. L’ampio spettro tecnico e tematico della sua arte riesce a cogliere l’attimo nel gioco combinato di luce guizzante e di movimento. L’incapacità di accettare compromessi, che possano mettere a rischio il suo particolare spessore concettuale e filosofico, sempre in relazione alla fotografia, lo pone come outsider di quest’arte dell’incanto.
Nelle opere della personale di “Intrecci d’Arte”, l’impostazione, apparentemente arbitraria è in realtà costruita con notevole precisione: per esempio, giocando sull’intreccio di casualità del motivo e di organizzazione dell’impianto, accentua il contrasto tra vicinanza e lontananza, spazio pieno e spazio vuoto, ma offre anche all’osservatore un’impressione di vitalità del tutto nuova. Il gioco di ombre crea un intreccio di luce e movimento con la superficie del quadro. Nelle foto di danza, ad esempio, la perfezione del movimento e la sua dinamicità viene resa percepibile, attraverso il contraccolpo prospettico e il dissolvimento della luce, che colpisce l’immagine in ogni sua parte. Semeraro blocca il movimento e sceglie il modo adeguato per rappresentarlo. L’osservatore viene condotto maggiormente verso la scena, mentre lo spazio risulta compresso e accessorio a causa della bidimensionalità, che però attraverso l’accelerazione compositiva, ottenuta dai contrasti cromatici, si riesce a rompere gli schemi prospettici e a restituire la percezione della forma. E, come la convinzione di Degas, fosse che “l’incanto sta nel mostrare non la fonte di luce, bensì l’effetto della luce”, si nota come, in Semeraro, il baricentro si sposti dall’osservazione all’invenzione, per sviluppare sempre più una costruzione di forme in movimento. In alcune opere, la rappresentazione coglie la ballerina nell’attimo di una azione estrema, di un movimento appena compiuto.
L’impressione di straordinaria levità del gesto, espressa nella danza, viene ulteriormente accentuata dal controluce. Ma, verrebbe da osservare che, il movimento stesso, ad un certo punto, si trasformi in una strana immobilità. L’esasperazione dell’atteggiamento blocca nell’osservatore la sensazione dell’azione. La ballerina, nella sua posizione che non conosce né un prima né un dopo, risulta in un certo qual modo appesa a fili invisibili e rovinerebbe sul pavimento, nel momento in cui questi venissero tagliati. Il movimento non è accolto dall’occhio come un flusso continuo, bensì viene espresso in un attimo avulso ed estremo. Eliminato il punto d’appoggio, l’azione risulta talmente estemporanea, che l’impressione di moto viene nello stesso tempo esasperata e annullata, per essere trasposta plasticamente nello scarto tra la tensione estrema e la potenziale caduta. Semeraro non tralascia affatto di considerare il lavoro imprescindibile per il raggiungimento di quella leggerezza, necessaria alla danza: cerca di conservare la fugacità del momento come qualcosa di prezioso, per rispetto all’arte e al suo studio, rigoroso e impegnato. La sua fotografia rivela un mondo nel quale immediatezza e costruzione, parvenza e verità, finzione e disillusione non sono più distinguibili. Nella sua composizione riesce a far coincidere transitorietà e artificio. Egli si avvale di un taglio dinamico per attivare la contemplazione, rompendo in tal modo, radicalmente, con le convenzioni compositive, riesce a costruire le immagini in modo tale, che non sembrino costruite. Nelle opere dell’esposizione di “Intrecci d’Arte”, i più complicati prospetti spaziali vengono presentati sotto le condizioni dettate dalle necessità formali di assorbire e conservare il movimento e la torsione del corpo della danzatrice. Le sue figure in silhouette si espandono nello spazio, di fronte alle pose accademiche, le sue danzatrici in equilibrio precario sembrano create attorno a un centro virtuale, in relazione al quale gli assi e i volumi vengono spostati o estesi. L’autore, in queste opere, cerca il movimento che non conosce stasi, il frammento che serve alla negazione e, allo stesso tempo, all’affermazione della tonalità, come fossero delle sculture di luce.
E, quando, ci si appresta in maniera più concettuale, allo studio di ricerca, sotteso a queste opere si evince quanto la linea non sia forma, ma, piuttosto, suggerisca il modo di vedere la forma, scandagliando le qualità luminose delle palette di colori o dei toni del bianco e nero. L’opera di Domenico Semeraro è un percorso, una riflessione dello sguardo, per il quale coincidono l’esperienza e l’invenzione; rimane soltanto da stabilire quale sia il punto di partenza e quale, invece, lo sviluppo interiore, dato che le immagini si riproducono a vicenda. In questo senso, ogni opera è potenzialmente infinita. Raffinato e metodico nei modi espressivi, la sua fotografia contiene approfondite conoscenze di arte, di musica, di letteratura, di filosofia e psicologia dell’immagine. Domenico Semeraro è un audace architetto dello sguardo, i suoi lavori rappresentano l’arte di costruirne la fruizione. L’allontanamento dal modo di vedere ufficiale è, per lui, l’interesse stesso per l’arte. Con questo, viene facile il rimando a Baudelaire e alla preferenza assoluta per il ricordo e la costruzione sulla percezione immediata. “La modernità” secondo la celebre definizione di Baudelaire nel saggio Pittore della vita moderna, “è il transitorio, l’effimero, il casuale, è la metà dell’arte, l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.
Tutto ciò dischiude la possibilità di esprimere ciò che non può essere espresso, ciò che non può venire mostrato, rendendo positiva una non visione. Ma, proprio nel momento in cui si sarebbe tentati di ricondurre l’iconografia di queste opere fotografiche alla somma di operazioni compositive, tecniche ed espressive, ecco che l’artista esorta a considerare la capacità di superamento dei piani di lettura, andando oltre le ordinarie “interpretazioni da portfolio”, strumento di cooptazione per mentalità standardizzate da circolo: “Basta osservare – dichiara Domenico Semeraro – è tutto lì, io non ho inventato nulla!”.
Alessandra Basile