17 marzo 2020 -17 marzo 2021. È passato un anno dal mio ricovero in ARCISPEDALE S. MARIA NUOVA di Reggio Emilia. Voglio oggi raccontare la mia esperienza di paziente coronavirus salvato dai medici di questo grande ospedale.
Il tutto ebbe inizio il 12 marzo del 2020. Durante una riunione nel mio luogo di lavoro: avvertii i primi sintomi, colpetti di tosse secca. Rientrai a casa in serata, i colpi di tosse aumentavano sempre più e incominciai ad avere i primi sospetti nel momento in cui la febbre misurò 38 gradi. Vivevo da solo, cosa posso fare? Pensai! Lessi su internet che la Tachipirina era l’unico farmaco che poteva aiutarmi, l’avevo in casa ed ingoiai le prime compresse. Nella notte la fortissima tosse sfondava i polmoni, rimasi sveglio tra ansia e febbre che si alzava e si abbassava come un’altalena. Cosa fare? Avvisare i miei famigliari in Puglia? No, non potevo allarmarli magari è solo una coincidenza, domani passerà. Il giorno dopo la febbre non scese e la tosse peggiorò ancora, andai in farmacia e misi a conoscenza la farmacista sulle mie condizioni fisiche, mi diede uno sciroppo per sedare la tosse e feci rifornimento di Tachipirina.
Ore senza tregua, il virus aveva preso il mio corpo. Avvisai il mio medico curante e, secondo protocollo sanitario, mi tenne sotto stretto controllo medico, mi chiamava ogni 4 ore. In casa avevo un saturimetro, misurai l’ossigenazione che in quel momento era 97, valori nella norma. Nei giorni precedenti avevo intervistato per La Voce di Maruggio, Massimo M., il cosiddetto “paziente 1 ” della Puglia infettato da coronavirus originario di Torricella. L’ho chiamai via chat confidando la mia situazione, Massimo mi aiutò moltissimo a capire cosa stava succedendo al mio fisico e raccontandomi la sua esperienza mi diede dei consigli: “Mi raccomando, mi disse, appena la saturazione passa al di sotto dei 90 non esitare a chiamare il 118, potrebbe succedere all’improvviso”.
Il mio stato febbrile peggiorava, avevo bisogno di qualcuno che sapesse delle mie condizioni. Il mio respiro incominciava ad essere molto debole ero affaticato avevo dei dolori articolari, nausea e diarrea. A quel punto il mio medico di base mi prescrisse una radiografia polmonare urgente da effettuare presso l’ospedale. Presi la mia auto e mi recai presso la struttura ospedaliera, dopo circa 3 ore di attesa arrivò il mio turno. L’esito radiologico fu: polmonite interstiziale, ovvero sospetta infezione da coronavirus al 40%. Incominciò il mio calvario di paziente covid19. In quel momento mi crollò il mondo addosso. Era il 16 marzo, giorno del mio 61mo compleanno.
Un infermiere mi accompagnò al Pronto Soccorso nella struttura riservata a sospetti infetti da coronavirus, erano le 3 del pomeriggio, poco dopo mi eseguirono il tampone faringeo, emogasanalisi arteriosa, esami ematologici. Efficientissimi, pensai, ma poi rimasi per 3 ore in un box, un’attesa assurda senza nessun segno da parte di medici o infermieri. Mi vennero in mente quei servizi giornalistici che avevo visto spesso in tv, la gente che moriva nei corridoi degli ospedali attendendo di essere visitata, la mostruosa solitudine di essere lì solo, potenzialmente contagioso e dunque tenuto a distanza da chiunque. Mi sentivo in buone condizioni psicologiche non ho mai pensato di poter morire in quella circostanza ma l’angoscia maggiore era il nulla che stava avvenendo in quelle ore. Ed ecco che l’attesa finisce, i medici mi rimandano a casa. Secondo il loro parere non ero grave e potevo tranquillamente curarmi nella mia abitazione. Avvisai mio fratello del sospetto contagio e dal quel momento eravamo in due a soffrire. Durante la notte le mie condizioni peggiorarono, mi trovavo da solo in casa, l’unica mia salvezza erano i consigli di Massimo, il saturimetro e il telefono.
Il 17 marzo il saturimetro mi segnalò un valore preoccupante 87, misi a conoscenza il mio medico di base e prontamente fece intervenire il 118 che mi portò con urgenza in ospedale. Ore di attesa nei corridoi, al freddo e confinato assieme ad altri presunti infetti in spazi decisamente ristretti. Arrivarono le prime cure: mi iniettarono qualcosa via endovenosa, mi diedero delle compresse e mi rimandarono a casa alle prime luci del mattino dicendomi ancora una volta che non ero in precarie condizioni.
Il giorno seguente il saturimetro segnò 82, il mio respiro era sempre più faticoso non riuscivo parlare, incominciai ad aver paura ma, con sangue freddo avvisai ancora il mio medico che fece intervenire con urgenza, per la seconda volta, i sanitari del 118. Mi portarono in ambulanza a sirene spiegate in ospedale e dopo una breve attesa in Pronto Soccorso arrivò un medico che mi confermò il ricovero in OBI. Ero Covid-19 positivo e avevo una infezione polmonare. Mi trasferirono in un reparto in Day Hospital e lì rimasi per 48 ore continuando ad assumere tachipirina e ossigeno somministrato con gli occhialini per ossigenoterapia.
Torniamo indietro nel tempo, dieci giorni prima avevo conosciuto Elena, una meravigliosa donna di origine russa, la chiamai molto preoccupato per avvisarla che ero stato contagiato e consigliandole di avvisare il suo medico dell’avvenuto contatto con me. Da quel momento Elena fu al mio fianco virtualmente, mi chiamava ogni momento per avere notizie sulle mie condizioni dandomi coraggio, fortunatamente lei non era stata contagiata, non faceva trasparire la sua preoccupazione, aveva un leggero mal di gola ero io preoccupato per lei.
Mio fratello Tonino era sempre in contatto con me, il mio datore di lavoro era preoccupatissimo, ed intanto era partita la sanificazione del mio luogo di lavoro.
Il 20 marzo mi trasferirono nel reparto di medicina, il mio respiro era sempre in pessime condizioni, tosse fortissima che bucava i polmoni. Ma la fortuna fece capolino, il primario del reparto era una mia vecchia conoscenza, in quel momento ebbi il presentimento che qualcuno da “lassù” mi volesse aiutare. Il dottor Angelo Ghirarduzzi, mi tenne sotto stretta osservazione mi dava speranza non ha mai mollato ma, le sue cure erano inefficaci, le mie condizioni di salute peggioravano sempre di più, l’ossigenazione era sempre più debole, le speranze della mia possibile guarigione non erano delle migliori, non vi erano dubbi potevo non farcela, avevo visto una barella lasciare il reparto con sopra un paziente che non aveva superato la notte. Ero afflitto, mio fratello non mi lasciava mai da solo, mi chiamava, mi dava la forza ad andare avanti, Elena mi dava speranza e forza, “devi farcela, mi diceva, dobbiamo continuare la “nostra” storia… appena cominciata“.
Intanto degli amici molto cari mi avevano aiutato a mantenere i contatti con la mia famiglia, Andrea L. e Annalisa V. chiamavano per sapere delle mie condizioni. Solo in pochi sapevano del mio ricovero, non volevo creare ansia ai miei cari. Mia sorella, mio figlio e mia figlia erano informati da mio fratello che era in stretto contatto con il reparto ospedaliero.
Il 25 marzo le mie condizioni non son delle migliori e vengo trasferito con urgenza in High Care (terapia intensiva) per iniziare la ventilazione non invasiva.
Arrivai in barella con la bombola di ossigeno al mio fianco, il primario mi comunicò delle mie condizioni, mentre mi informava venni preso da un forte attacco di tosse che mi tolse il respiro e stanco della situazione chiesi ingenuamente al medico «mi dica dottore quando mi passerà questa maledetta tosse?» Il medico mi rispose con voce determinata «caro Fernando pensiamo a salvare la pelle che a guarire la tosse ci sarà tempo!!!».
In quell’istante rimasi senza parole, vidi la mia vita scorrere in un attimo, pensai per un momento ai miei figli Giovanni e Ludovica a miei fratelli Tonino e Annarita a Elena ai miei amici. Ebbi un momento di sconforto e pensai che per me era giunta l’ora. Dai miei occhi scesero alcune lacrime, una giovane infermiera, Roberta, si accorse del mio stato emotivo e mi sussurrò «tranquillo Fernando, avrai modo di rivedere i tuoi cari, sei forte!» mi accarezzò il viso asciugandomi con un fazzoletto le lacrime.
Così è stato, mi sono salvato grazie a questi straordinari “Angeli” di corsia, grazie ai medici, agli infermieri, agli operatori sanitari.
Questa esperienza non è facile da dimenticare, non la auguro a nessuno. Ci sono voluti 25 giorni per salvarmi e ci sono riusciti con cura, con determinazione e con una grande preparazione. Non hanno trascurato nessun particolare. Non ricordo i nomi di tutte le persone, posso solo affermare che sono persone encomiabili sia sotto l’aspetto umano che sotto quello professionale. Voglio far sapere a tutti quanto sono grato loro.
L’11 aprile del 2020 feci ritorno a casa. Pensai che mi sarei ripreso rapidamente. Ma passati 7 giorni dalle dimissioni ero ancora in terapia con piccole dosi di cortisone e iniezioni di anticoagulante, le mie condizioni, pur essendo tutti i parametri biologici normalizzati, erano imprevedibili, mi sentii come aver attraversato una tempesta nel deserto. Ero molto debole, a volte mi sentivo stanco, lo stress mi aveva fatto perdere un po’ di capelli e comparvero dei ciuffi di capelli bianchi. Talvolta durante la notte venivo assalito come da uno stato di angoscia, ai limiti di una condizione psicologica non motivata da nulla, considerando che il peggio era passato, trascorrevo le mie giornate in compagnia virtuale con Elena che continuava a starmi vicino. Ora lei è diventata la mia compagna di vita, siamo diventati inseparabili in assoluta serenità…
Voglio ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine in questi momenti terribili. Il virus esiste, è subdolo non avvisa, arriva quando meno te lo aspetti, si impadronisce del tuo corpo, lo distrugge, ti distrugge. Questa esperienza mi ha lasciato una traccia indelebile. Stiamo attenti, vogliamoci bene, indossiamo la mascherina anti-covid e facciamola indossare. Il virus non guarda in faccia nessuno.
Fernando Filomena