Entriamo nel vivo di una progettualità su Kafka in relazione al prossimo centenario della morte. Kafka è un viaggio. Considerazione in merito in un giorno di labirinti tra il tempo della parola e lo spazio del corpo-essere. Cosa rappresenta kafka?
È un viaggio estremo tra il buio e l’aurora. Si parte ma non è detto che ogni partenza abbia un arrivo. L’importante è la partenza che trova in un dissolubile cammino una chiarificazione anche attraversando gli abissi o le selve o ancora le siepi, dove il colle non si intravede, ma si immagina e si sente dentro le parole del mistero e di un “chiaro di bosco” come mi ha insegnato Maria Zambrano.
L’aurora che si avvista in Franz Kafka è non solo capire l’angoscia del caos, ma cercare di renderla trasparente proprio dentro quel caos – labirinto che insiste nel Castello e passa inevitabilmente attraverso il Processo partendo dalla “trasformazione” che sive non nella Metamoforsi soltanto, bensì nelle metamorfosi che la vita considera come inevitabilmente nel destino dei personaggi.
La trasformazione è un paradossale passaggio dall’evitabile al non evitabile. Ovvero dell’impossibile, in Kafka è un costante abitare il luogo dell’anima e delle contraddizioni, al possibile. Non c’è fenomelogia. Ma l’assurdo domina, in modo ioneschiano, la metafisica. Il corpo dell’essere. Ma il corpo può lacerarsi dall’essere? E viceversa?
In Kafka il corpo non è mai separato dall’essere. Quel corpo – essere è il principio fondamentale che lo separa dalla ragione pur parafrasando il reale. Il reale ha la consistenza dell’oltre. Ciò è definibile non in uno solo scritto. Ma in tutta l’opera di Kafka. In essa ci sono delle coordinate a spirale che vengono ad assumere le ombre della luce e le ombre del buio. Il giorno appunto con l’aurora. Il buio a cominciare con il tramonto e con l’entrata dello scuro nel crepuscolo del giorno che giunge nella notte labirintica.
In Kafka caos, spirale e labirinto sono tre visioni che intrecciano il senso dell’esilio alla solitudine. La metafora dell’esilio è l’allegoria frequente della solitudine. I personaggi K sono la intelaiatura del mosaico che diventa espressione onirica come immaginazione, fantasia e soprattutto sguardo visionario. Da questo sguardo si affacciano gli umori dei personaggi e il pensiero del Potere che sovrasta il fragile. Infatti nelle sue opere non c’è mai fragilità.
C’è anche, sostanzialmente, consapevolezza di uno stato di impotenza che nasce però dentro l’affermazione, ancora una volta metaforica, della potenza come atto rappresentativo dell’incontro chiaramente tra corpo ed essere. L’ambiguità non è la manifestazione dell’ipocrisia. È la constatazione di una condizione umana della struttura psicologica del contrario che si muove tra i fili dell’assurdo, appunto, che legano l’esistere con l’assenza. Tra il vivere e il morire. Questo significa che si supera persino la storia. Un nicciano percorso verso il luogo del rinascere dentro la nascita.
Da qui l’aurora che ha un valore zambraniano, come fatto dentro la maschera dei beati, ma anche come tragico sentire la presenza nella vita assente. Un luogo sempre caro a Nietzsche che prende consistenza dal tempo angoosciosamente esistenziale di kierkegaard. Kafka, in fondo, era un attento lettore di kierkegaard e si porta nel suo scrivere una eredità profonda proprio quando sente la necessità di abbandonare il campo dell’assurdo per entrare, non solo sul piano letterario, nel mistero.
Siamo mistero, sembra dire. Ma per entrare nel paesaggio dei misteri bisogna aver vissuto il vuoto o meglio il nulla. Una trasgressione che, comunque, lega la letteratura alla filosofia e questi ad un vocabolario della necessità di morire in una impossibile possibilità.
Marilena Cavallo
(Ordinario di Lettere nei Licei)