“Non sono uno sciocco da pensare che tutto potrà essere come prima, né di cercare di farlo credere a te”. Giorgio Faletti. “Niente di vero tranne gli occhi”. Ho letto sempre con molta attenzione i romanzi e i racconti del mio amico “pirandelliano”, che aveva molto di Ionesco e di Kafka, oltre che di Hitchcock,
Giorgio Faletti. Morto a Torino. Avrebbe compiuto a novembre prossimo 64 anni. Era nato, appunto, nel 1950 ad Asti. L’ironia era il suo viaggio, come attore, come cantante, come artista. Una ironia che aveva l’umorismo nelle coordinate esistenziali ma conosceva molto bene l’altra faccia della medaglia che è il singhiozzo del dolore. L’ho ricordato come scrittore, ma il suo volto ha l’immaginario di un cinema che rischia la contemporaneità per farsi verità.
“Miracolo italiano” del 1994. “Elvjs e Merilijn” del 1998. “Notte prima degli esami” del 2006 e poi 2007. “Baaria” del 2009. “Il sorteggio” del 2010. Titoli di alcuni suoi film nei quali ha partecipato come attore. Quell’ironia non conosceva la frugalità, ma il senso di un orizzonte in cui il cinema e la letteratura costituivano una forma forte di espressività umana.
Così come la canzone. Ma è nello scrittore che si vive la malinconia dell’allegria. Da “Io uccido a “Niente di vero tranne gli occhi” e poi “Fuori da un evidente destino” , “Io sono Dio”, “Appunti di un venditore di donne”, “Tre atti e due tempi”. Coprono un arco di tempo che va, cito solo i romanzi ma ci sono anche i racconti, dal 2002 al 2011. qual è lo snodo di questo personaggio?
L’immagine e la scrittura e tra queste due coordinate si gioca la vita sul tavolo verde di una scommessa che è quella della vita e della morte. Ha camminato sempre sul filo di una concessione al tema dell’assurdo. Nel 1995 ci offre un album di canzoni dal titolo “L’assurdo mestiere”, che è il titolo anche di un singolo. Testi cantati da Milva, Mina, Fiordaliso, Gigliola Cinquetti oltre a quelli affidati alla sua voce. “Disperato ma non serio” è l’album del 1990. Mentre “Condannato a ridere” è del 1992. Un singolo suggestivo “L’ombra” è del 2011 nel quale si ascolta: “Seguimi, una volta tanto fa qualcosa di diverso e vieni dietro a me metti il sole alle tue spalle che davanti ci stia io una volta tanto lascia che il tuo passo segua il mio”.
Nel suo gioco ad incastro c’è una profonda venatura alchemica, alchimia non come ricerca ma come via verso l’Altro, come nel testo: “L’apprendista stregone” con musiche di Angelo Branduardi. Una poesia del magico percepire i sensi come in “Nudi”: “…sei una notte che passa e va via in un momento e a due bocche di labbra cucite non strappa nemmeno un lamento, sei una notte di luna, quante cose da fare, solo se volessimo, solo se volassimo, solo se valessimo..di più”
C’è un legame tremendo tra la canzone e l’iter narrante dei suoi romanzi. La nostalgia del ribelle diventa la malinconia dell’ironico. Il velame poetico è un attraversamento in un catturare le parole nel sentiero di un linguaggio che diventa fortezza. Una forza interiore tanto “da lasciare dei cerchi per terra come accade sull’acqua coi sassi” (in “La ragazza è stata baciata”).
L’ho ascoltato, l’ho letto, ci siamo incontrati. Ci siamo parlati con uno sguardo che aveva la “sensualità” di occhi sciamani nell’ascolto di un vento che canta: “Per le carezze di mio padre e di mia madre Per il futuro da leggere invano girando i tarocchi Per le linee della mano diventate rughe sotto gli occhi Perché tutto è sbagliato ed è così perfetto Per ciò che vinco e ciò che perdo se scommetto”.
E scommettere bisogna, mio caro Giorgio, perché “Anche se a volte ci si spezza il cuore In questa assurda specie di mestiere Che è l’amore” (in L’assurdo mestiere”). L’assurdo, l’ombra o l’isola, lo stregone.
Forse è un misterioso camminamento camminando (Branduardi) in questa vita che non concede pause e quando una pausa si avverte il teatro non ha più luce accese e diventiamo tutti dei marinai che vendono acqua di mare. Un sortilegio che richiama antichi echi.
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