“Riposo molto lontano dalla terra d’Italia/e di Taranto mia Patria/e ciò m’è più amaro della morte./Tale destino hanno i nomadi/a conclusione della loro inutile vita!/Le Muse però mi hanno caro/ed a compenso delle mie afflizioni/mi offrono una dolcezza di miele./Il nome di Leonida non tramonta per esse:/i loro doni lo testimoniano sino all’ultimo sol”. È Leonida di Taranto che recita questo canto di malinconie.
Credo che la questione relativa al «caso» dei testi QUASIMODIANI rinvenuti a Taranto, di cui si è discusso nei giorni scorsi, sia nella città di Leonida che altrove, sia servita, almeno ad aprire una discussione seria, con tutta la serenità possibile, sul legame tra Magna Grecia e letteratura, su Novecento letterario e radici greche, su Leonida nel Novecento poetico da Ungaretti e Quasimodo sino ad Alfonso Gatto.
Ogni impatto dialettico non capita per «caso». Il caso non esiste. Facciamo in modo che con il Nobel Quasimodo, presente, certamente, a Taranto, in più occasioni, si possa «riscoprire» la funzione che ha avuto Leonida nel contesto soprattutto del Novecento italiano.
Leonida, infatti, non è solo in Quasimodo (come traduttore e come poeta contaminato dalla sua grecità ionica). È presente in molti spazi archetipici di Ungaretti e, soprattutto è vitale nella grecità di Cesare Pavese. Ecco perché non capita nulla per caso.
Si pensi allo stretto legame, di parentela di linguaggi e metafore, tra Leonida e Raffaele Carrieri (uno dei più importanti e necessari poeti europei del Novecento). O anche alle significative pagine di Carlo Belli (il vero ideatore del Convegno di Studi sulla Magna Grecia) quando scrive di «Taras» e del Museo archeologico. In Carlo Belli Leonida è una pietra angolare, che permette al Roveretano di penetrare il tessuto greco di Taranto. Proprio dopo una lettura attenta dei versi di Leonida, Carlo Belli pensa ad una valorizzazione di Taranto attraverso la Magna Grecia, e si «inventa» la strada delle archeologie. Si era negli stessi anni della nascita della Italsider. Belli propone, in quel tempo, un piano culturale contrapponendosi al polo siderurgico. Tutto ciò è ben documentato, anche in molte mie pubblicazioni con testimonianze di prima mano.
Comunque. La questione «Quasimodo – Taranto», ormai definitivamente chiarita, potrebbe portare bene con una progettualità articolata nella omogeneità identitaria di una città tra le più carismatiche d’Italia. Si chiarisce per andare oltre. Mi sembra un dato estremamente rilevante riportare Leonida al centro delle attenzioni non solo archeologiche, ma anche letterarie.
Leonida è il padre della grecità letteraria inevitabile che va da Foscolo a Pavese, dall’idea di bellezza in Tommaseo all’incontro tra Alvaro, Viola, Carrieri. Dal tema del viaggio all’intreccio tra fuga e straniero. La Taranto greca è una letteratura del mito e dei simboli. L’abbinata Leonida – Quasimodo è fondamentale, ma Leonida è una dimensione linguistica e metaforica.
Quasimodo, traducendo Leonida, dirà: “… era un uomo libero, figlio di una città che ai tempi in cui vi abitava era ancora l’emblema di una confederazione civile nemica dei compromessi e favorevole al rispetto dei diritti dell’uomo…”.
Ogni equivoco, se chiarito come chiarito, dovrebbe permettere di aprire strade e percorsi per una progettualità altra e alta. Letteratura e archeologia è un rapporto costante. Ecco perché nel Sessanta del Novecento Carlo Belli aveva visto e letto bene la civiltà di Taranto nel costruire il primo Convegno sulle archeologie greche nella città più antropologicamente greca del Mediterraneo. Quel Mediterraneo che fu di Leonida e fu di Raffaele Carrieri, che divenne allievo nella metafora straziante che lo portò a scrivere tra le onde dello Ionio mare: “Forestiero sono stato in ogni luogo…”.
Pierfranco Bruni