Il Carrubo (nome botanico: Ceratonia siliqua, fam. Fabaceae) è un albero sempreverde che può raggiungere i 20 metri di altezza. Tipico della macchia più arida (si ritrova sia allo stato spontaneo che coltivato), fiorisce da settembre a novembre e genera il caratteristico frutto di colore bruno, dal tipico aspetto di legume, utilizzato nella tradizione sia nella alimentazione umana che in quella del bestiame. Il locale nome dialettale, còrnula, viene dal latino cornulum.
Ha proprietà antidiarroiche, astringenti, rinfrescanti.
I frutti vengono impiegati, come noto, come alimento per i cavalli, ma esiste una tradizione di impiego sia come alimento che come medicinale per gli uomini. Poiché sono zuccherini e di colore bruno come il cioccolato, venivano detti anche cioccolato dei poveri. Vengono utilizzati per la produzione di farine impiegate nell’industria dolciaria, e come surrogato del cacao.
I semi torrefatti venivano utilizzati come surrogato del caffè.
Dal carrubo si ricava anche un ottimo miele utilizzato anche come rimedio contro il mal di gola.
Per fermentazione, dalle carrube si estrae anche alcol etilico: nel Salento, come in Sicilia e in tutto il meridione, esistevano distillerie che impiegavano le carrube per produrre alcol.
Nella medicina popolare la farina di carrube era utilizzata come rimedio contro le infezioni intestinali. Si preparava con essa un decotto che aveva, inoltre, funzione antidiarroica.
Le foglie, allo stato fresco erano utilizzate come lassativo, e da secche come astringenti.
“Ticottu ti cornuli” era chiamato anche un decotto nel quale si utilizzavano carrube, fiori di malva, fichi secchi, fiori di fico d’India, bucce d’arancia e una capsula di Papaver somniferum come rimedio contro la tosse insistente.
A Copertino nel periodo della Quaresima si usava la pasta fatta in casa condita con mollica fritta e carrube grattugiate, detta anche mangiare ti èstie (“cibo delle bestie”).
A Lecce, c’era il detto: “ci mangia còrnule caca lignàme” (chi mangia carrube defeca legno).
A Manduria, di una persona molto magra si diceva “è mazzu comu na còrnula”, ed in questo paese esisteva anche una contrada denominata “La Còrnula” (registrata in un documento notarile del 1592). Lo stemma di Melissano raffigura un’ape circondata da tre carrube.
I semi, chiamati carati (dal greco keràtion) erano anticamente impiegati come unità di misura per pesare oro e pietre preziose, a causa della loro grandezza e del loro peso uniforme (0,2 gr.), identico in ogni semente.
Sull’albero del carrubo cresce il Laetiporus sulphureus, un fungo parassita dalla commestibilità controversa. C’è chi lo definisce tossico, eppure in molte località del meridione viene considerato un fungo pregiatissimo (oltre che raro), e viene venduto a cifre che vanno dai 50 ai 120 euro al chilo. Per tradizione, in alcune località non ha prezzo a causa della sua rarità, e viene offerto dal suo scopritore per disobbligarsi nei confronti di chi gli ha fatto un grosso favore. Il sapore del fungo viene paragonato da alcuni a quello del filetto di maiale, da altri alla carne del pollo, e forse anche per questo motivo, oltre che per il suo aspetto, viene chiamato anche Gallina di bosco.
Uno degli effetti riportati in letteratura circa la tossicità di questo fungo è la sindrome gastrointestinale, un altro la sindrome coprinica in soggetti che abbiano assunto il fungo unitamente a bevande alcoliche. In altre parole, il fungo si comporterebbe, in presenza di assunzione di alcol, come l’ Antabuse, un vecchio farmaco antagonista utilizzato per la cura dell’alcolismo successivamente alla disintossicazione (ovvero per evitare ricadute): se utilizzato però in concomitanza con l’assunzione di alcol, provoca reazioni avverse come tachicardia, cefalea, nausea, vomito, febbre, sudorazione, ipotensione arteriosa.
Nella tradizione popolare siciliana il carrubo selvatico ha reputazione di albero infame perché, si favoleggia, vi si sarebbe impiccato Giuda. Però il carrubo non è l’unico albero ad essere indicato come la pianta presso la quale si impiccò l’apostolo traditore: la stessa nomea è attribuita al cosiddetto Albero di Giuda (Cercis siliquastrum), al fico selvatico, al pioppo, e ad altre piante.
Gianfranco Mele
BIBLIOGRAFIA
Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, Centro di Studi Salentini, Lecce, 2012
Cosimo Perrone (a cura di), Le Piante nel territorio gallipolino tra Storia, Mitologia e Folklore, Regione Puglia – CRSEC Le/48 Gallipoli, Martignano Litografica Editrice, 2006
Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996
Gruppo Micologico Massimiliano Danesi, Schede funghi, Laetiporus sulphureus (sito web)