“Cannileri d’oru, cannileri d’argentu, Chi fa lu mè signuri dormi o avventa?”
“ Signura, trasissi sicura: Lu figliu d’ ‘u Re veni a dormi a la nura”
(da “Lu cannilèri”, Vallelunga)
“Lampada d’argento, stoppino d’oro, La mia signorina riposa ancora?”
Vanne vanne a buon’ora: La tua signorina riposa ancora.”
(da “Ombrion”, Milano)
“Lamperi d’oru, lamperi d’argentu, chi fa lu to Riùzzu, dormi o vigghia?”
“Trasìti signura, trasìti sicura, lu Riùzzu dormi, un avìti paura”
(da “La soru ti lu Conti”, Palermo)
“Dorme il tuo signore, il bel principe ?” domandò Tarda.
“Si, dorme,” rispose la lampada.
(da “La lampada d’oro”, Sava)
“Lampada mia d’argento, stupin d’oro, dòrmela o vègela la mia signora?”
“Intrate, intrate, in bona ora, la è in camera che dorme sola”
(da “Re Bufon”, Venezia)
Prendo spunto per questo scritto dalla reclame di una rappresentazione teatrale che in questi giorni, a Sava, presenta La Lampada d’Oro come una “fiaba savese ambientata nel 1800”. Tale interpretazione risulta arbitraria, e frutto, probabilmente, di un fraintendimento rispetto alla datazione della pubblicazione da parte di Giuseppe Gigli della suddetta fiaba, che la inserisce nel suo volume “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto” (con il sottotitolo: “con una aggiunta di canti e fiabe popolari“), pubbicato nel 1893. Ma il Gigli non fa altro che raccogliere, appunto, attraverso un lavoro di tipo etnografico, una serie di racconti e credenze della tradizione pugliese, e lui stesso non definisce La Lampada d’Oro come una fiaba nata e originata a Sava, ma semplicemente come raccolta “dal popolo di Sava”. Ovvero, il Gigli raccoglie dalle voci del popolo questa antica novella che, come vedremo, è comune a tutta Italia e in particolar modo al centro-sud, con una forte prevalenza siciliana: difatti la raccolgono anche Giuseppe Pitrè, Italo Calvino e molti altri. Italo Calvino definisce una versione di questa fiaba come “la più bella fiaba d’amore italiana”, “sospiro di malinconica gioia sensuale”. La trama e le diverse versioni della fiaba, che narra di magia, di fate e cavalieri, suggeriscono inoltre una ambientazione tra periodo medievale e rinascimentale; tantomeno risulta essere nata a Sava o specifica di Sava, benché nella tradizione orale savese ne sia esistita una versione.
Questa fiaba si ritrova in Sicila, a Noto, con il titolo “La lampada d’oru“. Si ritrova inoltre, con poche varianti, nella raccolta di fiabe siciliane di Giuseppe Pitrè con il titolo La sorella del conte (“La soru ti lu conti”: la fiaba in questo caso è raccolta a Borgetto, Palermo). Sempre il Pitrè, la ritrova in provincia di Caltanissetta con il titolo “Lu cannilèri“. Italo Calvino la ritrova anche in Calabria. Carlo Gargiolli la ritrova nelle Marche con il titolo “El fijo de’ re“, Gennaro Finamore la ritrova in Abruzzo, ancora in Sicilia la ritrova Laura Gonzembach, così come in altra versione siciliana la ritrova Domenico Comparetti e la pubblica in “Canti e racconti del popolo italiano“.
Ma il tema della lampada d’oro con parte della narrazione identica a quella del Gigli lo si ritrova anche nella Novellaja Milanese pubblicata da Vittorio Imbriani (nella fiaba Ombrion) e nelle Fiabe Popolari Veneziane di D.G. Bernoni (Re Bufon).
Una ulteriore versione la si ritrova nel “Cunto de li cunti” (detto anche Il Pentamerone) pubblicato da Giovan Battista Basile tra il 1634 e il 1636 con il titolo “Bel viso” (in altre versioni “Viso”, “Lo viso”).
Se non bastasse la trama, che già è eloquente poichè parla di magia, di una donna prigioniera nei sotterranei di un castello (in alcune varianti è prigioniera in una torre), e di cavalieri e fate, proprio il testo del Basile ci dà l’idea di una datazione della fiaba sicuramente antecedente di molto al 1800: e occorre anche tener presente che il Basile, pur diffondendo e mandando in stampa la sua opera a metà 1600, ambienta e ispira i suoi racconti a novelle popolari medievali e li trae da fiabe e leggende più antiche.
A seguire, riproponiamo integralmente la versione raccolta dal Gigli con il titolo “La lampada d’oro” e quella raccolta nell’entroterra palermitano con il titolo “La sorella del conte”.
LA LAMPADA D’ ORO (dal popolo di Sava)
Ei già fu un cavaliere, ricco e potente, che era disperatissimo di non aver figli. Aveva consultato mille e mille medici intorno allo stato di salute della moglie, e tutte le cure, tutte le medele prescritte da quella caterva di scienziati, erano riuscite perfettamente inutili. Finalmente fece un voto a Dio: e Dio esaudì i suoi desideri : sua moglie usci incinta, e dopo nove mesi diede alla luce una bellissima bambina, cui diede un curioso nome: Tarda !
Un giorno vide il cavaliere una fata e chiamatala a sé, dimandò quale sarebbe stato il destino della figliuoletta.
“Sino ai quindici anni,” rispose quella, “passerà sempre pericolo di morire strangolata, per mezzo d’un osso di bue. Perciò, se vuoi che giunga a tarda età, eseguisci questo consiglio: da oggi rinchiudila in un sotterraneo, insieme con la sua nutrice.”
Il cavaliere, amantissimo di sua figlia, ubbidì alla fata, e rinchiuse la piccina in un sotterraneo.
Passarono gli anni. Giunta Tarda verso i tredici anni, e non più bambina, ma giovine essendo nel pieno sviluppo di sua femminilità, domandò un giorno alla nutrice la ragione, per la quale li sotto misteriosamente rinchiusa la tenevano i genitori.
“ Eh, mia cara figlia,” risposele la nutrice, “fu una fata a dar questo consiglio a vostro padre….” e le narrò tutto.
“E’ una curiosa istoria! “ esclamò Tarda. E poco dopo domandò :
“ Com’ è fatto un osso di bue ? “
“ Colle parole non saprei dirvi….”
“Mi volete bene? se mi volete bene, procuratemene uno, e ve ne sarò grata per tutta la vita ! “
“Che dite mai ! “ esclamò sgomentata la donna.
Ma le insistenze di Tarda furono tali e tante che la povera nutrice fini per cedere, e uscita di notte tempo per la città, tornò con un magnifico osso. Tarda fu felice.
E avvenne che ogni notte, quando la fanciulla era sicura che la donna dormisse, togliea 1′ osso dal nascondiglio ove quella avevalo riposto, e lo contemplava piena di felicità. Una volta dissegli :
“ Perchè, oh ! perchè volevi uccidermi ? fammi piuttosto felice, e liberami da questa orribile prigione, e procurami uno sposo che sia il più potente uomo del mondo ! “
L’ osso mandò un piccolo suono: la fanciulla sbalordì.
Poi, piano, piano, picchiò con esso contro il muro. L’ osso mandò altri suoni più dolci, e disse :
“Seguita ! seguita ! “
Tarda obbidì alle misteriose parole. Dopo un poco di tempo, a forza di picchiare continuamente, apparve nella parete una piccola buca, dalla quale si vedeva una ricchissima stanza con un magnifico letto, nel quale dormiva il figlio più giovine del re. Stupì Tarda a tale vista, e sorrise.
Nel mezzo della stanza, una lampada d’ oro illuminava ogni cosa. Questa lampada era fatata, e disse alla fanciulla :
“ Che cosa vuoi da qui ? “
“Dorme il tuo signore, il bel principe ?” domandò Tarda.
“Si, dorme,” rispose la lampada.
Allora la bella fanciulla, colla maggiore precauzione possibile, penetrò dalla buca nella stanza del principe, e visto su di un mobile un ricco orologio che a quello servìa di guida e di norma nelle ore del giorno, lo prese con se. Poi, scoccato sulle labbra del bel giovine un ardente bacio, fuggi nel suo nascondiglio.
Destossi all’ improvviso il principe, e chiamò ad alta voce aiuto. Accorsero guardie, cortigiani e soldati. Fu rovistata la casa per trovare il colpevole: tutto riusci vano, e il povero principe, tremante di paura, non dormi per molte notti.
Passarono tre mesi.
Un’ altra volta, nel cuor della notte, Tarda picchiò contro lo stesso muro con l’ osso. E apparì la solita buca, e la solita stanza, illuminata dalla grande lampada d’ oro.
“Dorme il bel principe ? “ domandò.
“ Dorme,” rispose la lampada.
Piano, piano, trattenendo il respiro, entrò ella nella ricca stanza, e sedè un poco a contemplare il dormente: era un bellissimo giovine di diciotto anni, alto, biondo, dagli ocelli neri e soavi. Gli si appressò, e gli tolse dal dito mignolo un grossissimo anello che quello aveva acquistato, da poco, e che era formato da una gemma di altissimo valore. Poi gli scoccò sulle labbra il solito bacio, questa volta più ardente, e fuggi, e spari nel suo sotterraneo.
Nuovamente, alle grida del principe, fu messo sottosopra il palazzo: ma il ladro non fu scoperto.
Il principe perde la pace. E passarono altri tre mesi.
Una notte Tarda prese 1′ osso, e lo battè contro il muro. Apparve la buca, ma l’osso si ruppe. La giovine penetrò nella stanza del principe. Dormiva. Allora gli tagliò una lunga ciocca di capelli, e gli diede un altro ardentissimo bacio. Cercò, come il solito, di fuggire, ma questa volta la buca erasi rinchiusa.
Allora, sgomentata, pallida, atterrita, la bella fanciulla si rivolse alla lampada :
“Lampada d’oro,” diss’ ella, “’aiutami tu!”
La lampada la rapi con se, in alto e la trasformò in colomba.
Destatosi il principe, e vistosi col capo raso, presso la fronte, cominciò a gridare. Grande fu l’allarme nel palazzo. E fu gridato un bando: chiunque consegnasse al principe 1′ ardito ladro, potrebbe chiedergli qualunque grazia, che egli accorderebbe di sicuro. Ma il ladro non fu scoperto.
Intanto simile sgomento avveniva in casa del cavaliere, al quale mancava la figliuola. Egli presentossi al re :
“Maestà,” disse, “ ho perduto mia figlia: certamente il medesimo ladro che penetrò in vostra casa, togliendo al principe 1′ orologio, l’ anello e la ciocca di capelli, ha rubato a me il più grande tesoro che mi avessi ! Chiedo giustizia a vostra maestà.”
Il re volle allora, armato di fucile, rovistare di persona in tutte le stanze del palazzo. Giunto nella camera del principe, e volti gli occhi in alto, vide sulla lampada la bella colomba bianca. Voleva egli ucciderla, ma il figlio vi si oppose.
“Come,” diss’ egli, “volete sparare nella mia stanza? Cerchiamo piuttosto di prenderla viva.”
E la colomba fu presa. Sotto le ali portava nascosti i tre oggetti rapiti al principe. Tutti se ne maravigliarono.
“Ecco il ladro,” dissero.
E volevano nuovamente ucciderla; ma il cavaliere disse :
“Maestà, una grazia : date a me quella colomba ! Sarà il cambio di mia figlia !”
Gli fu concessa.
Mentre, col prezioso dono, se ne tornava in casa, incontrò egli di nuovo la vecchia fata e le raccontò le sue disgrazie. La vecchia sorrise e rispose :
“Uccidete un bue, e con un osso di quello, picchiate sul capo di questa colomba : riavrete vostra figlia.”
Il cavaliere esegui il consiglio, e la colomba trasformossi in Tarda, nella sua amata figliuola. Seppe il re l’avvenimento, seppelo il principe. Allora i due giovani si vollero vedere: parean fatti uno per 1′ altro. E si sposarono.
Questa sopra, la fiaba diffusa da Giuseppe Gigli. Il Gigli raccoglie dalle voci del popolo, in lingua dialettale, il racconto, e nel pubblicarlo lo traduce e scrive in italiano. Tutti gli elementi, ed anche il raffronto con le diverse versioni sparse nel territorio nazionale, suggeriscono una ambientazione tra epoca medievale e rinascimentale, eccetto due particolari che rimanderebbero invece una datazione più tarda: la presenza di un “fucile” e di un “orologio da tavolo”. Ma, a parte il fatto che archibugi e orologi da tavolo son diffusi già nel XVI secolo, occorre considerare anche che qualsiasi tipo di racconto, nel tramandamento orale, subisce modifiche, e dunque, in considerazione del fatto che tali elementi non appaiono nel resto delle versioni della fiaba, potrebbe trattarsi di un innesto tardivo, o addirittura esclusivo della donna che racconta al Gigli la fiaba.
LA SORELLA DEL CONTE (entroterra palermitano)
Si conta e si racconta che c’era una volta un Conte ricco quanto il mare, e questo Conte aveva una sorella bella quanto il sole e la luna, che aveva diciott’anni. Per gelosia di questa sorella, egli la teneva sempre sotto chiave in un quartiere del suo palazzo, tanto che nessuno l’aveva mai vista né conosciuta. La bella Contessina, che non ne poteva più di star lì rinchiusa, di notte, adagio adagio, si mise a scavare nel muro della sua stanza, sotto un quadro. Muro a muro del palazzo del Conte c’era il palazzo del Reuzzo, e il pertugio in quel muro dava negli appartamenti del Reuzzo, sotto un alto quadro, cosicché non si vedeva. Una notte, la Contessina spostò un poco il quadro e guardò nella camera del Reuzzo. Vide un prezioso lampadario acceso e gli disse:
“Lampada d’oro, lampada d’argento, Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?”
E il lampadario rispose:
“Entrate, Signora, entrate sicura. Il Reuzzo dorme, non abbiate paura.”
Ella entrò e andò a coricarsi a fianco del Reuzzo. Il Reuzzo si desta, l’abbraccia, la bacia, e le dice: “Signora, donde siete, donde state? Di quale stato siete?”
E lei, facendo ridere la sua boccuccia d’oro, rispondeva:
“Reuzzo, che chiedete, che guardate? Tacetevi ed amate.”
Quando il Reuzzo si risvegliò e non si vide più quella bella Dea vicina, si rivestì in un lampo e chiamò Consiglio.
“ Consiglio! Consiglio!” – Venne il Consiglio e il Reuzzo gli raccontò lo stato delle cose. – “Cosa devo fare per farla restar con me?”
“Sacra Corona,” – disse il Consiglio, – “quando voi l’abbracciate, legatevi i suoi capelli a un braccio. Così quando se ne vorrà andare vi dovete svegliare per forza.”
Venne la sera e la Contessina domandò:
“Lampada d’oro, lampada d’argento, Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?”
E il lampadario:
“ Entrate, Signora, entrate sicura. Il Reuzzo dorme, non abbiate paura.”
Ella entra e s’infila sotto le coperte.
“Signora, donde siete, donde state? Di quale stato siete?”
“Reuzzo, che chiedete, che guardate? Tacetevi ed amate.”
Così s’addormentarono e il Reuzzo s’era legato al braccio i bei capelli della Contessina. La Contessina piglia una forbice, si taglia i capelli e se ne va.
Il Reuzzo si sveglia. “Consiglio! Consiglio! La Dea m’ha lasciato i capelli ed è sparita!”
Risponde il Consiglio: “
“Sacra Corona, attaccatevi al collo la sua collanina d’oro.”
La notte dopo, s’affacciò la Contessina:
“Lampada d’oro, lampada d’argento, Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?”
E il lampadario rispose:
“ Entrate, Signora, entrate sicura, Il Reuzzo dorme, non abbiate paura.”
Il Reuzzo, quando l’ebbe tra le braccia le chiese ancora:
“ Signora, donde siete, donde state? Di quale stato siete?”
E lei al solito:
“ Reuzzo, che chiedete, che guardate? Tacetevi ed amate.”
Il Reuzzo si passò intorno al collo la collanina di lei; ma appena s’addormentò lei tagliò la collanina e sparì.
Alla mattina: “Consiglio! Consiglio!” – e riferì la cosa.
E il Consiglio: “Sacra Corona, prendete un bacile d’acqua di zafferano e mettetelo sotto il letto. Appena essa si leva la camicia, voi gettatela a bagno nello zafferano… Così, quando se la metterà per andar via, per dove passerà lascerà l’orma.”
Alla notte che venne, il Reuzzo preparò il bacile con lo zafferano e si coricò. A mezzanotte ella disse al lampadario:
“Lampada d’oro, lampada d’argento, Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?”
E il lampadario rispose:
“Entrate, Signora, entrate sicura. Il Reuzzo dorme, non abbiate paura.”
Il Reuzzo, svegliandosi, le fece la solita domanda:
“Signora, donde siete, donde state? Di quale stato siete?”
E lei gli diede la solita risposta:
“Reuzzo, che chiedete, che guardate? Tacetevi ed amate.”
Quando il Reuzzo sprofondò nel sonno, ella si levò quatta quatta, fece per andarsene ma trovò la camicia a mollo nello zafferano. Senza dir nulla, torce e spreme ben pulita la camicia, e scappa senza lasciare orme. Da quella sera in poi, il Reuzzo aspettò invano la sua Dea, e ne era disperato. Ma dopo nove mesi, una mattina, appena sveglio, si trovò coricato al fianco un bambino bello che pareva un angelo. Si vestì in un lampo, gridando:
“Consiglio! Consiglio!” – e mostrò al Consiglio il bambino dicendo: “Questo è mio figlio. Come farò ora a riconoscere sua madre?”
E il Consiglio rispose: “Sacra Corona, fate finta che sia morto, mettetelo in mezzo alla chiesa, e date ordine che tutte le donne della città vengano a piangerlo. Chi lo piangerà più di tutte, sarà sua madre.”
Così il Reuzzo fece. Venivano ogni sorta di donne, dicevano:
“Figlio, figlio! – e partivano com’erano venute.
Venne alla fine la Contessina e con le lagrime che le scendevano giù si mise a strapparsi i capelli e a gridare:
“O figlio! figlio! Che per avere troppe bellezze Mi son tagliata le mie brune trecce, Che per essere troppo bella Mi son tagliata la mia catenella, Che per esser troppo vana Ho la camicia di zafferana. Il Reuzzo e il Consiglio e tutti si misero a gridare:
“Questa è la madre! Questa è la madre!”
In quel momento si fece avanti un uomo con la sciabola sfoderata. Era il Conte, che puntò la spada sulla sorella. Ma il Reuzzo si buttò in mezzo, e disse:
“Fermati, Conte, vergogna non è, Sorella di Conte e moglie di Re!”
E si sposarono in quella stessa chiesa.
Come si vede, le due versioni sopra riportate sono identiche nei contenuti, a parte alcune sfumature; nella versione siciliana di cui sopra, la donna scava nel muro senza l’aiuto dell’osso, ma l’osso riappare in altre versioni siciliane e nella storia riportata dal Basile, come lo stesso Calvino annota e fa notare.
Impossibile riportare qui, in un articolo, tutte le versioni integralmente: rimando ad approfondimenti nella bibliografia di sotto elencata per chi ne fosse interessato, e concludo con alcune note sulla versione di Giovan Battista Basile (che però ha un finale tragico): la giovinetta si chiama Renza, ed è stata rinchiusa da suo padre in una torre poiché degli indovini avevano predetto al padre che sarebbe morta a causa di un osso. La giovinetta si innamora di un principe, e con un osso portatole da un cane, scava nel muro forandolo e facendo una fune con le lenzuola fugge con il principe. Nel finale, la donna (che non si trasformerà in colomba come nella versione savese, ma in un fraticello), morirà, con gran disperazione del principe.
In un blog che cito qui di sotto (alla voce “risorse online”), inoltre, si possono ritrovare ulteriori notizie e comparazioni tra le diverse versioni della fiaba.
BIBLIOGRAFIA
Giuseppe Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, 1878
Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto – con una aggiunta di canti e fiabe popolari, 1893
Vittorio Imbriani, La novellaja milanese, 1877
Domenico Giuseppe Bernoni, Fiabe e novelle popolari veneziane, 1873
Giovan Battista Basile, Il Pentamerone ovvero Lo cunto de li cunti, Napoli, 1634
Carlo Gargiolli, Novelline e canti popolari delle Marche, 1878
Gennaro Finamore, Novelle popolari abruzzesi, 1882
Italo Calvino, Fiabe italiane, Einaudi, 1956
Domenico Comparetti, Canti e racconti del popolo italiano, 1870
Laura Gonzembach, Racconti popolari siciliani, 1870
Vincenzo Consolo e Luisa Rubini (a cura di), Laura Gozembach, Fiabe siciliane, 1999
RISORSE ONLINE
http://zerkalo-mitomania.blogspot.com/2015/03/la-sorella-del-conte-pitre-n7-la-soru.html
http://incipitedia.blogspot.com/2012/10/la-sorella-del-conte.html