Il rapporto tra scienza e potere è il nucleo centrale dell’ultimo libro di Pierfranco Bruni La panacea letale (Ferrari Editore). Un pamphlet incisivo e tagliente che irradia le sue radici in un remoto passato dal sapore d’eresia e che contempla l’annosa questione smascherando i nervi scoperti di un sistema sociopolitico che in questa era pandemica disvela una deleteria labilità.
Nell’epoca pre-scientifica si pensava all’erudito come a un mago. Il depositario del sapere era sinonimo di intelligenza superiore. La conoscenza veniva quindi concepita come forma di potere ad appannaggio di pochi e impiegata come arma di sottomissione di massa.
Lo sviluppo della conoscenza scientifica ha condotto a un incremento delle pari opportunità conoscitive dell’intelligenza umana. Ma questa “democrazia del sapere” ha realmente contribuito a ridurre l’abuso di conoscenza da parte di un sistema che di fatto continua a rimanere oligarchico?
Democrazia della scienza come “democrazia di conoscenza”. Questo uno dei tanti inesplicabili quesiti che affronta Pierfranco Bruni nel suo poderoso saggio. Un attraversamento tra figure del passato che hanno versato sangue per “sete di conoscenza” e per desiderio di divulgazione di un sapere concepito come progresso dell’umanità.
Il pensiero di Bruni si proietta nell’intricato percorso esplorato fino a dissolversi nella consapevolezza che la scienza dovrebbe essere svincolata da ogni cappio ideologico e politico per divenire esclusivo strumento di progresso degli uomini e non causa della loro distruzione. Un messaggio urlato al mondo anche da un indulgente Brecht nel suo Galileo in cui disquisisce sul rapporto tra scienza e potere esaminando le responsabilità dello scienziato in ambito filosofico, politico ed etico.
Brecht individua nel “tradimento” e nel “disimpegno” le panacee letali della comunità scientifica, ossia la tentazione dello scienziato di rimettere nelle mani dei potenti il suo sapere non curandosi di eventuali abusi e strumentalizzazioni. Un tradimento che si annulla nel suo disimpegno vissuto come esclusione dal dibattito politico per opera di quella classe intellettuale che non attribuisce valore culturale alla scienza.
Brecht richiama la scienza e la società all’impegno sociale e politico, nel senso più nobile del termine, nella persuasione che gli scienziati debbano difendere la loro libertà che è libertà di tutti.
Assunti investigati anche da un Bruni osservatore di verità mai rivelate, come l’irrisolto “caso Marojana”, la cui vicenda continua a nuotare nei palustri fondali dell’enigma. Un episodio imperscrutabile che origina nell’epocale dibattito che infiammò la comunità scientifica alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. La scienza era tenuta a fornire al totalitarismo nazista il proprio contributo di conoscenza e di applicazioni, violando un codice etico che si sarebbe dovuto preservare? Come deve essere letta la scomparsa di Majorana avvenuta dopo aver intrecciato rapporti con la comunità scientifica tedesca e la pubblicazione del suo saggio sulla teoria nucleare?
Bruni come Brecht, ma anche come Sciascia e come tutti quei grandi pensatori che non si astennero dal considerare fallimentare una scienza che non pone al centro l’essere umano in quanto “individuo”. Uniti nella struggente consapevolezza che il rifiuto del concetto di “antropologia dell’essere” non può che condurre a una fatale filosofia dell’incertezza.
Stefania Romito