La piazza era anche il luogo dei cantastorie. Mi ricordo quando sul finire degli anni Cinquanta un signore poco più che trentenne, basso, esile e con il mustacchio, venuto da chissà quale lontano paese della Sicilia, si situava nei pressi di Piazza del Popolo, sistemava una pedana sul marciapiede vicino al castello dei cavalieri di Malta e, salito su di essa, accompagnandosi con la chitarra, cantava strazianti storie di banditi e briganti, colmi di sangue e tormentati amori, simultaneamente tradotte dal vernacolo siculo alla lingua madre. Per rendere “leggibile” e comprensibile la trama assestava alle sue spalle un cartellone, in cui erano raffigurate le fasi salienti della storiella. A tarda età ho capito che quelle storie riguardavano le gesta eroiche dei nostri “briganti”, dei nostri contadini vessati e tormentati, divenuti “banditi” per sopravvivere. Il “brigante”, figura emblematica e leggendaria di un Sud martoriato, è un uomo «severo e scarno, vestito di nero e argento, col fucile irto di tacche, una per ogni nemico ucciso; è un uomo romantico e irruente, che si rifugia nella calda complicità della macchia per dimenticare la ferita di una storia d’amore mai sopita; è un uomo disperato ed amaro, che vive d’odio e povertà, masticando lento i soprusi patiti, e la vendetta ventura; è un uomo incendiario, fuggito dal piano a causa di una fede, che riposa nelle forre nere e verdi le speranze mai morte in una rivoluzione impossibile; è un uomo ascetico e taciturno, che assolve lentamente le proprie vittime e prima di finirle le bacia, che recita ogni giorno il rosario e legge le Vite dei Santi nelle faville del fuoco della sera; è un uomo ancora capace di scorgere nel profilo delle sue montagne al tramonto qualche angelo non più venerato, che gli parla piano.»
Dal silenzio di quelle montagne scorre la storia intrepida dei nostri “briganti” che mi accompagna lungo il torrente della vita, forse per ricomporre un’identità rimossa dai libri di storia scritti dai vincitori. Ho capito in tarda età che dentro ognuno di noi vive un “brigante”, sempre pronto per reagire alle ingiustizie dei prepotenti. Di quelle storie narrate dai cantori ambulanti della mia fanciullezza non mi è rimasto che qualche brandello di memoria. La storia del “bandito” Salvatore Giuliano (detto Turiddu):
È arrivatu lu cantastorii sicilianu
pi farvi sintiri tutta la storia
di lu banditu Giulianu.
Vogghiu cantari a cannarozzu chinu
la vita di Turiddu Giulianu
lu briganti mudernu e malandrinu ca stranizzari fici un munnu sanu
e affissu e tannu arditu e arrisolutudi Muntilepri fu lu Re assolutu…
…e quella dell’ultimo “brigante” Giuseppe Musolino (detto Musulinu):
Signuri mei chista è la vera storia
di lu briganti Giuseppi Musulinu
ca mi vinni raccuntata
di tanti vecchi calabrisi…
Noi bambini stavamo lì, l’uno accanto all’altro, in mezzo alla nostra gente, piuttosto davanti ad essa per ascoltare e per meglio vedere le figure ritratte sul cartellone. Tutti in piedi, piccoli e adulti, come tanti babbei, con l’espressione visiva tra lo sdegno e il compiacimento e con gli occhi quasi sempre lucidi di pianto per la commozione ascoltavamo quelle tragiche storie d’amore e di brigantaggio meridionale. Era uno spettacolo nello spettacolo vedere quella moltitudine di gente semianalfabeta, mentre ascoltava a bocca aperta i versi storpiati del cantastorie. Era una specie di menestrello, un affettuoso “animale da piazza”, nel senso che sapeva “agitare la piazza”, successore dell’antica dinastia dei giullari e precursore dei moderni comizianti politici.
Tratto dal libro “L’infanzia perduta” di Tonino Filomena
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