Ho potuto raccogliere, nel tempo, una serie di documenti e testimonianze riguardanti la tradizione degli antichi canti popolari, con particolare riferimento, come campo di indagine, al territorio di Sava, ma con uno sguardo anche a paesi limitrofi come Manduria, Maruggio, Lizzano, Pulsano, Fragagnano, San Giorgio Jonico. Oltretutto, e ovviamente, i canti di cui parlo a seguire appartengono ad aree contigue, e dunque “viaggiavano” con fluidità da un paese all’altro.
In questo scritto riprendo alcune descrizioni già pubblicate nel mio articolo “La tradizione del canto popolare in Sava e dintorni”, apparso qualche anno fa sulla rivista “Le terre del primitivo” (e al quale rimando per ulteriori approfondimenti), arricchendolo di varie note inedite.
Al fine di condensare e sintetizzare in un articolo i materiali raccolti, citerò alcune strofe o passaggi significativi di una serie di brani, molti dei quali provengono da una ricerca di tipo bibliografico-documentario; alcuni altri, provengono da esperienze dirette di ricerca o coinvolgimento in una serie di iniziative volte al recupero della canzone popolare locale. Iniziamo ora questo breve excursus, con dei cenni sulla nascita e la diffusione dei canti popolari.
La questione dell’origine della produzione popolare è molto discussa: si può tuttavia sintetizzare nella distinzione tra tre filoni principali di influenza. Ci sono canti che hanno una stretta derivazione dalla tradizione della poesia provenzale (di ispirazione cortigiana e cavalleresca); altri le cui influenze possono essere rintracciate nell’arte antica, altri di derivazione prettamente “volgare”.
Con il termine canti popolari si intende perciò una ampia gamma di composizioni riferite alle epoche della trasmissione orale del canto: si tratta di un ambito molto vasto che abbraccia nel tempo diversi stili e forme di espressione.
Sin da epoca medievale, i cantori viaggiano insieme alle loro canzoni di paese in paese e spesso di regione in regione, per cui è difficile rivendicare la paternità geografica di una canzone o stabilire quando sia nata e quante e quali trasformazioni abbia subito nel corso del tempo e nel suo viaggio attraverso paesi e contrade, e attraverso le varie versioni tramandate oralmente e rielaborate, riadattate a seconda dei dialetti, delle interpretazioni locali, e anche della memoria di chi se ne faceva interprete e portavoce.
Si ritrovano perciò nella nostra zona antichi canti comuni alla tradizione leccese, a quella tarantina, più in generale a quella di tutta la Puglia e di tutto il meridione. In ogni posto, questi canti sono caratterizzati da versioni differenti, non solo in termini di lessico, ma anche, molte volte, di contenuti: un canto comune a più paesi o zone geografiche può contenere innumerevoli varianti, strofe aggiunte, rimaneggiamenti. E’ così, ad esempio, che quella canzone conosciutissima come “Lu rusciu de lu mare”, a Sava e limitrofi aveva una sua versione peculiare, e diventava “La ruscita ti mari” (le prime strofe così recitavano: “Iersera ‘nci passai ti ‘na patula, e sintìa li nannaronchiuli cantari; comu cantàunu belli ti natura , sia ca era ruscita ti mari …”); laddove la versione leccese recita “la fija te lu re se tae la morte”, a Sava è invece l’innamorato (della principessa) non corrisposto, che dice: “la fija ti lu re mi tai la morti!” fornendo così alla storia un significato diverso da quello che ci perviene dal testo di ambito leccese.
I canti popolari possono essere classificati in una serie di filoni principali, a seconda delle tematiche trattate, dell’origine della loro divulgazione, e dei criteri stessi di classificazione e schematizzazione: canti d’amore, romanze epico-liriche, canti satirici, canzoni d’odio o di sdegno, canti carnasciàlici, pizziche e tarante, canti marinareschi, canti di lavoro, canti licenziosi.
Diversi erano gli stili, le tematiche affrontate, le forme di esecuzione e divulgazione: ad esempio, durante il lavoro nei campi si cantava in coro e “a cappella” ovvero senza l’ausilio di strumenti, mentre in occasione di feste e cerimonie apparivano i “suonatori” di organetto, chitarra, mandolino, tamburello ecc.. I cantastorie giravano invece per le piazze, divulgando romanze che raccontavano di epiche gesta o di amori e tradimenti con risvolti di cronaca nera, oppure di vicende particolari dei tempi. Vi erano poi cantori specializzati in satira e dileggio politico, e altri che mescolavano diverse tematiche e tipologie.
I canti licenziosi e piccanti potevano essere veicolati nelle osterie da allegre combriccole o dai carrettieri durante i loro viaggi su traini e sciaraballi; i canti di sdegno erano rivolti a persone ritenute macchiatesi di tradimenti d’amore o di altre gravi “colpe”.
Passione e amore davano luogo a componimenti particolarmente poetici e toccanti, come ad esempio il canto (raccolto in Sava nella seconda metà del 1800) di un innamorato disposto a togliersi la vita per l’amata in caso di mancata corresponsione d’affetto:
“Paragoni cu tei no pozzu fari , occa ci quannu parla spanni fiori ; funtana ci congiungi a tutti i mari, calamita ca spacchi lu miu cori; e ci stu matrimoniu no’ mi fai fari, cu ‘nu curtieddu mi spaccu lu cori”.
La figura di una donna che arde di passione per un uomo che non ancora le corrisponde amore, è delineata in una antica canzone savese che recita:
“mille suspiri l’ora òu gittannu, pi n’amanti ci amu, e lu pritennu, dici ca mi ccuttenta e non so quannu, s’ardi lu cori mia di stati e ‘jernu”.
una versione savese del popolare canto d’amore salentino “quannu te llai la facce la matina”, a Sava diventa “cu l’acqua ci ti llài la matina”, con strofe pressochè identiche alla più nota versione leccese.
Un classico della canzone popolare è l’amore ostacolato, a Pulsano ad esempio si ritrova il canto:
“tutti mi ticinu a me lassalu scire: comu l’aggiu lassàri, ci eti primu amori?”, così come una strofa di una canzone savese recita: “tutta contra di mei la icinanza, di l’ora ci pigliammu cunfidenza...”
Tra sdegno e passione, un canto raccolto tra Maruggio e Sava che recitava in una sua strofa:
“ti ricuerdi quannu ièri villana, ti mangiavi cicora e zangùni: mò t’ha misu lu sciccu ti lana, e uè chiamata signora e madama”..
Di tradimento parla un canto fragagnanese che recita:
“mò fa tant’anni ca fabbricai nu castellu, cridìa ca era iu lu castillanu; ma doppe fabbricatu tanta bellu, mi llivàrunu li chiavi di li mani. Rimanìu comu lu pittore senza lu pinnieddu, e comu lu cacciatore cu l’arme a mmanu!”
L’amore tradito o che sta per terminare, si riaffaccia in un canto di San Giorgio Jonico:
“Fiore di menta, n’agghju scancillàtu vintinove amante; e mò scancelle a tte, e facimu trenta!”.
Un tipico canto di sdegno-odio è nei versi manduriani che recitano:
“sì comu n’aulìa gnuricata, comu na paparea ‘ngiallinùta: magari ti ni minti oru ‘n canna, sempri la facci tua mena puràgna!”
Analogamente, un canto pulsanese di disprezzo recita:
“quantu sinti brutta, cu ti cati coccia! Chi ti trimenti, perde l’appitìtu; perde l’appitìtu e lu sapòri, si faci verde e no’ teni culori!”
Odio e vendetta preannuncia un canto savese, che attraverso un gioco di parole (la figura del “cane incatenato” è una metafora per descrivere l’uomo protagonista, che si trova incarcerato e urla vendetta quando uscirà dal carcere) recita:
“Tutti li ùrpi sciucàrunu alla rena, mò ci lu cani mia stai ‘ncatinàtu: ma ci lu cani ristacca li catèni, chiui ti na orpi si troa scannata”.
Un canto di lavoro di San Giorgio Jonico recita:
“Quant’è bellu cu vè a campagna, quannu è tiempu ti vinnegna, quanne fiorisce la gramegna, siente lu ciucce di ragghjà”.
Erotismo e sensualità caratterizzano un altro antico brano raccolto in Sava dallo Schifone, che narra del desiderio di un uomo di giacere con due donne:
“Aggiu saputu ca do’ donni siti, e tutti toi a nu’ palazzu stati […] iu òu chinu ti fuècu, cce mmi ulìti? Mi corcu a ‘mmienzu a bui, e cchiù càuti stati”.
Tra malizia e scanzonata allegria, un canto lizzanese recita:
“Maria marinella voli lu zitu, voli lu piscatori pi maritu”.
Un antico stornello licenzioso è stato riportato ad una certa popolarità grazie a Lugi Stifani, il celebre barbiere-suonatore di Nardò che suonava per le tarantate: si tratta de “Lu monucu” che nella versione di Stifani si toglie la “tunica” di fronte ad una incredula e stupita (ma condiscendente) fanciulla che, per giustificarsi, dichiarerà poi di essere stata oggetto di attenzioni omicide da parte del religioso. Nella versione savese, il primo incontro con il libidinoso monaco avviene in una cantina (“quannu scii sotta alla cantina, quanta paura mi feci pijà: belli donni chiamati la mamma, ca lu monucu mo’ mi scanna”).
Naturalmente, son rimaste tracce anche di versioni locali di pizziche e tarante: abbiamo ad esempio una notevole documentazione della loro diffusione in Lizzano (raccolta grazie alle ricerche del Majorano), San Marzano di S. Giuseppe, ed altre località della provincia di Taranto.
Verso il finire degli anni ’80, ho potuto raccogliere, dalla voce di una donna di Sava, Giuseppa Calò (classe 1928), una versione savese della tarànta che ho pubblicato in altre occasioni e che di recente abbiamo eseguito per la prima volta in uno spazio musicale complementare ad un convegno organizzato dal Gruppo Culturale Savese (dal titolo: “Dal tarantismo alla fascinazione, la Magia in terra d’Otranto”) presso il Museo dell’ Olio a Sava .
Sanacore è il titolo di una antica canzone diffusa in tutta l’ Italia meridionale, e si tratta di un dialogo tra un uomo e una donna. Una strofa di questo canto recita: “ – bella figliola comme ve chiammate? – me chiammo sanacore e che vulite ? – saname stu core oi né, stanotte voglio a te, songo ‘nnammurato ‘e te, saname stu core ca mò sta malato ‘e te …”. Della versione savese ci perviene l’identica strofa (grazie alla ricerca di Alfredo Majorano), così recitata: “ – Vulìa sapere comu bi chiamate! – Sanacore me chiamu e, oh! Cce bulìti ? – Mentri ca Sanacore bi chiamate, sanate lu cori mia ca stai ferìtu”.
Il canto-filastrocca Jesce sole, che è divenuto un classico della canzone napoletana (si fa risalire comunemente al 1200, ma probabilmente origina, a sua volta, da canti augurali ancor più antichi), si diffonde per secoli in tutto il meridione, e nella versione savese inizia con “jèssi soli, jèssi soli, ca ti voli Bon Signori”.
Verso la fine del XII secolo scendono in Italia i trovatori provenzali che diffondono con i loro liuti e le loro voci canti epici e suggestive storie d’amore; questa tradizione raggiunge il suo apice tra 1500 e 1800 con rinnovata spinta e con l’ausilio di nuovi strumenti a corda. Oggetto delle composizioni e dei canti sono fatti storici, romanzeschi e leggendari, in genere intrisi di tragedia. Si tratta sostanzialmente dei Cantastorie che sino ai primi del ‘900 girovagano numerosi per paesi e contrade, lasciando tracce fino alla fine degli anni ’60. Gli ultimi cantastorie, con l’avvento prima della gommalacca e poi del vinile come supporti audiofonici, si dotano di riproduzioni fonografiche dei loro canti, che vendono nelle piazze dei nostri paesi alla fine di una lunga, “multimediatica” esibizione che li vede cronisti anche attraverso l’ausilio di un telone sul quale sono raffigurate, a mo’ di vignette, tutte le fasi delle storie che sciorinano durante la performance.
Sino a fine anni ’60 questa tipologia di spettacolo non era infrequente nelle nostre piazze, rivolta tuttavia ad una audience che si faceva via via sempre meno numerosa. Al tempo del loro declino, i cantastorie riuscivano a catturare soltanto l’attenzione di alcuni anziani del paese, giungendo così all’estinzione delle esibizioni. La Baronessa di Carini, La Storia del Brigante Musolino, il Bandito Giuliano erano alcuni dei titoli delle loro rappresentazioni portate in giro in tutto il sud della penisola. Ma ancor prima, questa tipologia di cantori narrava tragedie come La storiella di Pierina, un raccapricciante e crudele fatto di sangue scaturito dalla rivalità di due giovani che si contendono una amante (ripescato in una recente ricerca condotta nel Salento da Giovanna Marini).
Ancora più anticamente, si diffondeva in tutto il meridione la storia di un’altra donna contesa tra due uomini, che nelle versioni savesi ci perviene sotto ben tre differenti titoli: Munticervi, Munticelli, Cunti Cervi. Costui è uno dei due protagonisti maschili della storia: l’altro è Cunti Marcu (in alcune varianti locali “Muntimarcu” e in altre località “Re de Maggiu”, “ Re De Marcu”, “Re De Cipru”, ecc.). La protagonista femminile nelle versioni locali da me raccolte non ha un nome (viene citata in apertura del canto e chiamata semplicemente “fija mia” dai genitori) ma in alcune zone del leccese si chiama (dando anche il titolo alla canzone) Verde Lumìa, a Manduria Verde Lucia, in Lucania Fior d’ Auliva, in altre zone Fronni d’Alìa. Le versioni del canto sono numerose in molte regioni d’Italia, così come di località in località variano i nomi dei protagonisti, ma la trama è sempre e ovunque la stessa: la fanciulla è data in sposa dai genitori (contro la sua personale volontà) ad un uomo molto più anziano ma ricchissimo (Cunti Marcu). Lei ama però un suo coetaneo, Munticelli, e perciò fugge nottetempo evadendo dal castello dello sposo e recandosi verso l’abitazione dell’amato: il giovane amante non intende però aprirle le porte, poiché si sente tradito (“jessi vinuta quannu ièri zitella, mo’ no’ ti voju cchiùi, cara surella”). Ma la ragazza, che era ricorsa ad un espediente durante la prima notte con l’anziano nobile (“cunti Marcu mia iu ti preu la vita, làssimi pi na notti ti carosa e zita”) urla al suo amante: “ci no’ mi criti ca so’ zita onesta pija la spata e tronchimi la testa, ci no’ mi criti ca so’ carosa e zita, pija la spata e tronchimi la vita”. E così, quando Munticelli sentì queste parole, “porti e purtieddi ozzi a spalancari”. Conti Marcu, accortosi della scomparsa della sposa, si precipita a cavallo verso la casa di Munticelli gridandogli “apri Munticelli, aprimi sti porti ca m’è scappata la mula mia stanotti”. Ma il giovane gli risponde: “Ci era mula mi criscìa la razza, mo’ jè zitella e jat’a ci si la ‘mbrazza”. E prosegue, schernendo il rivale: “bruttu curnutu, ‘mmuzziti quiddi corni, ca t’ona crisciuti vintiquattru parmi”.
Di molti dei canti citati, con il passare del tempo si è persa traccia della melodia e ci è pervenuto unicamente il testo. Di recente, abbiamo ridato vita a buona parte di queste composizioni dimenticate, attraverso alcune iniziative: oltre alla citata, recentissima serata presso il Museo dell’Olio, nel 2016 abbiamo realizzato in Sava uno spettacolo dal titolo “Radici”, in occasione del quale sono stati presentati una serie di brani tradizionali e antichi rivisitando, laddove le melodie non erano più rintracciabili, la parte strumentale con la maggior attinenza possibile rispetto agli stili compositivi delle rispettive epoche.
Gianfranco Mele
BIBLIOGRAFIA
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Gianfranco Mele, La tradizione del canto popolare in Sava e dintorni: esempi e stralci, in “La rivista delle Terre del Primitivo, un viaggio alla scoperta dei tesori e dei segreti di una terra unica, G.O.T., Sava, 2016, pp. 10-13
Saverio La Sorsa, Tradizioni popolari pugliesi, Casini Ed., 1933