A partire dalla seconda metà del Settecento viene ampiamente divulgato in Sava un accadimento risalente a quasi due secoli prima, la conversione al cattolicesimo di un uomo reso schiavo da un signorotto locale, avvenuta a seguito di un presunto miracolo: un provvidenziale intervento della Madonna avrebbe permesso all’uomo di affrancarsi da catene e schiavitù. Lo schiavo, costretto dal suo tiranno al trasporto di pesanti fardelli con un ceppo di ferro legato al piede, avrebbe implorato la Madonna di aiutarlo, promettendo che se fosse stato liberato si sarebbe convertito. Senza farselo ripetere due volte, la Madonna fa cadere dal cielo un pesante macigno che spezza le catene a cui l’uomo era legato. Il prodigioso accadimento viene interpretato come una volontà della Vergine di liberare l’uomo, a seguito della sua promessa di conversione. Un grosso segnale della potenza della religione e della fede cattolica, che spinge l’uomo ad abbracciare definitivamente il cattolicesimo, a rinnegare la sua precedente religione e a farsi battezzare, e al tempo stesso spinge la comunità ad accettare quest’uomo come un cittadino savese e un “cristiano” fra i cristiani, e il suo stesso tiranno ad affrancarlo dalla condizione di schiavo. Ma questa non è la verità storica, e non è neanche leggenda originatasi in seno al popolo: è una storia imbastita dalla diplomazia clericale e ufficializzata in questa versione da un vescovo nel 1775. Vediamo perchè, ricostruendo i fatti e le varie tappe storiche dell’ intero episodio.
All’alba del 14 settembre 1594 si affaccia nel Mar Grande di Taranto una imponente armata turca di oltre 100 galee, comandata dal Bassà Assan Cicala, rinnegato calabrese (secondo altre fonti messinese) ed ammiraglio turco. Sbarcati, i turchi devastano le campagne e cingono d’assedio la città.
I Saraceni sbarcano alle Cheradi, occupano le isole di Santa Pelagia e di Sant’Andrea, poi attaccano le torri costiere di capo San Vito e di capo Rondinella. Sbarcano alla foce del Tara, e assaltano e incendiano una torre di vedetta con pochi uomini a guardia. Fanno prigionieri i custodi della torre che vengono condotti al cospetto del Cicala e da costui interrogati per conoscere i segreti della città fortificata. I turchi quindi attaccano Taranto, e a difendere la città ci sono soltanto i pochi soldati spagnoli del presidio affiancati dai cittadini chiamati a raccolta. Si attendono i rinforzi, e a fronteggiare l’assedio giunge finalmente un esercito coordinato da Carlo D’Avalos, marchese di Pescara e Vasto; alla cavalleria ordinaria si aggiunge una cavalleria straordinaria formata da vari feudatari della zona e capeggiata da Marcantonio De Raho, barone di Lizzano. Dopo uno scontro cruento, i turchi vengono messi in fuga; vi sono, tra di essi, morti e prigionieri.[1] Proprio il De Raho, cattura durante la battaglia un giovane turco e lo rende suo schiavo. Erroneamente, il Coco riporta, nella sua opera “Cenni storici di Sava”, come data dell’assedio dei turchi e della cattura dello schiavo il “gennaio 1605” (mutuando l’errore da una nota di Berardo Candida-Gonzaga, che nella sua opera “Memorie delle famiglie nobili delle Provincie Meridionali d’Italia”, vol. II, riferisce che Marco Antonio De Raho “Capitano di Cavalli del Ripartimento di Terra d’Otranto, liberò nel 1605 la città di Taranto investita dall’armata turchesca”). [2] In realtà la battaglia risale, come si è detto, al 1594, e l’uomo dunque è tenuto prigioniero dal De Raho per ben 11 anni fino alla sua parziale liberazione avvenuta con il battesimo, che risale al giugno del 1605. A parte l’errore di datazione dell’episodio della battaglia con i turchi fatto dal Coco, la tesi che l’uomo sia stato fatto prigioniero dal De Raho in quella battaglia è la più verosimile e accreditata, ed è sostenuta dallo stesso Coco, il quale fa riferimento alle notizie tramandatesi al riguardo. Sempre il Coco, specifica anche che “parecchi di costoro presi e catturati, furono ritenuti presso dei vincitori come dei servi, avvalendosi del decreto della Regia Camera della Summaria del 1575”.[3] Con questo decreto, si ordinava difatti che i prigionieri turchi potevano essere trattenuti come schiavi e servitori dalle famiglie che ne avessero fatto domanda. Tuttavia, la schiavitù esisteva già da tempo in Puglia, e già 3 secoli prima Lucera, grande colonia saracena di Puglia, aveva fornito al mercato (in particolare quello napoletano) migliaia di schiavi. Tra il 1500 e il 1600 il mercato era fiorente, e gli schiavi venivano ceduti o acquistati con formali atti notarili. Si ha notizia anche di schiavi di proprietà delle Curie, oltre che più comunemente di famiglie nobili e signorotti. L’altra e più remota ipotesi, alla quale fa riferimento lo stesso Coco, è che il De Raho avesse comperato lo schiavo. In ogni caso, poco cambia, se fosse vera questa seconda ipotesi, rispetto al resto dell’accadimento che analizzeremo a seguire. Oltre alle fonti storiche e agli studi rigorosi che ci dimostrano come la conversione e il battesimo degli schiavi fossero una prassi usuale nella Puglia del periodo, conversioni e battesimi che non avvenivano a seguito di “miracoli” ma a seguito di un’opera di condizionamento e di persuasione esercitata dal clero, è lo stesso Coco a ricordarci che nella vicina Francavilla Fontana si trovavano all’epoca una ventina di schiavi che, dopo essere stati battezzati, vivevano come servitori presso famiglie nobili.[4]
Da un manoscritto del 1801 (circa) attribuito all’ Arciprete Spagnolo, sappiamo poi che questo schiavo era impiegato a trasportare i suoi carichi dalla villa Grava (nei pressi di Pasano e sulla strada che mena verso Lizzano), sino all’entrata del paese di Sava per i lavori ordinatigli dal suo tiranno De Raho.[5] La versione fornita dal Calefati sostiene invece che che lo schiavo dai campi del De Raho “posti verso Pasano” conduceva carichi “nella casa del padrone in Sava”.[6] Pare più verosimile che la dimora del De Raho fosse proprio la villa Grava, situata peraltro tra Pasano e Lizzano. In ogni caso, l’itinerario del trasporto dei carichi era quello.
Stemma della famiglia De Raho
Al primo sabato del marzo 1605[7] risalirebbe la data del presunto miracolo: lo schiavo, secondo quanto raccontato non proprio dalla tradizione, ma, come vedremo, da un Arciprete e da un Vescovo (a distanza di ben oltre un secolo dall’accaduto), sarebbe stato liberato dalle pesanti catene cui era sottoposto, grazie a un provvidenziale intervento della Madonna che avrebbe, nientemeno, fatto cadere dal cielo (con una mira e una precisione eccezionali, perchè non osiamo immaginare cosa sarebbe accaduto al poveretto se avesse sbagliato anche di qualche centimetro) un pesante masso a spezzare il ferro delle catene. La storia somministrata alla credulità religiosa e popolare è alquanto bizzarra, e resa improbabile dalle stesse “prove” fornite, poiché come testimonianza tangibile del prodigioso accadimento, viene utilizzata una delle tante grosse pietre calcaree presenti nell’area stessa in cui si imbastisce la storiella del miracolo: altro che pietra “caduta dal cielo”![8]
Nel giugno del 1605, come risulta dai registri battesimali, questo schiavo, di credo musulmano, fu battezzato con il nome di Francesco. Dopodichè, a battesimo avvenuto, fu portato in corteo per le vie del paese ma, si badi bene, non per celebrare un “miracolo”, bensì per celebrare e rendere pubblica l’avvenuta conversione, esattamente come da usanza prestabilita e prassi consolidata all’epoca: a seguito della catechizzazione, conversione e battesimo, gli schiavi venivano solennemente portati in corteo.
La conversione ed il battesimo presupponevano un lungo e laborioso lavoro diplomatico da parte del clero, che doveva prima contrattare con il proprietario dello schiavo e farsi dare l’assenso all’opera di conversione, e poi, con lo schiavo, contrattare (se non estorcere) l’abiura della vecchia fede e la conversione al cattolicesimo.
Cosa accadde dunque nel caso specifico dello “schiavo di Pasano”?
La nobiltà di quei tempi era fortemente devota e legata alla chiesa e alle istituzioni religiose. La schiavitù in Puglia era purtroppo un fenomeno usuale tra il 1500 e il 1600, e compito degli uomini del clero era catechizzare gli schiavi, al fine di contenere la presenza di eresie e devianze religiose. Furono istituite addirittura confraternite specializzate, ed era usanza nel Regno di Napoli sin dalla fine del XVI secolo andare a cercare gli schiavi nelle case dei loro padroni per convertirli.[9] L’opera di catechizzazione era laboriosa e ben organizzata da un punto di vista diplomatico: il convincimento era ottenuto attraverso il meccanismo della ricompensa, ovvero veniva fatta allo schiavo la promessa di una vita migliore. Gli schiavi potevano venir sollevati dai loro compiti più gravosi e dagli aspetti più penosi della loro condizione. In genere, non si trattava della elargizione di una vera e propria libertà a seguito della conversione, ma del passaggio dalla condizione di schiavitù a quella di servitù. Laddove invece si aveva a che fare con schiavi particolarmente riottosi, potevano essere utilizzati metodi più drastici di “convincimento” (secondo le ricostruzioni di alcuni storici, vere e proprie torture).[10]
I Gesuiti avevano un ruolo di primo piano nella catechizzazione degli schiavi, tanto che nel 1601 si erano organizzati con la Congregazione degli Schiavi, un istituto appositamente creato per convertire gli schiavi musulmani. Tuttavia, erano attivi come catechisti già dai 20 anni precedenti.[11]
Sulla base di questi dati (e di altre specifiche che riporteremo a seguire), è facilmente deducibile ciò che accadde tra Lizzano e Sava nella vicenda dello schiavo di Pasano: la diplomazia clericale, sapendo che il De Raho detiene uno schiavo turco, si reca nella dimora del nobile e si accorda con lui per catechizzarlo. L’uomo, devoto e in buoni rapporti con il clero, acconsente, e vengono concertate le modalità dell’operazione. A conversione avvenuta, poi, come da prassi, lo schiavo verrà battezzato con un nome cristiano e portato in corteo sulla scia dei cerimoniali tipici e prestabiliti conclusivi e celebrativi dell’opera.
Naturalmente, sarebbe stato del tutto sconveniente per l’immagine della chiesa raccontare al popolo che la conversione ed il battesimo erano stati pattuiti sotto forma di contrattazione; sarebbe stato come (e come di fatto era) dar l’idea di una sorta di mercificazione della catechizzazione. Così, nacque l’idea diplomatica del miracolo. Spacciare come effetto di un prodigio un episodio di ordinaria routine diplomatica, avrebbe avuto il duplice effetto di mascherare e nobilitare la poco poetica e poco democratica operazione, e inoltre, di rinsaldare nel popolo la devozione e il legame nei confronti della chiesa e dei suoi simboli.
Il De Raho aveva possedimenti e abitazioni tra Sava e Lizzano, e la data della conversione dello schiavo, il giugno 1605, coincide con il termine della baronia di Lizzano dei De Raho e con il passaggio del feudo nelle mani dei duchi Clodinio. Il De Raho dovette forse stabilirsi definitivamente in Sava in quel periodo, e per questo motivo lo schiavo viene registrato negli archivi battesimali di Sava e reso cittadino savese. I De Raho ebbero parentele con i Del Tufo (antichi feudatari di Sava)[12] e forse con i Prato stessi; all’epoca dello schiavo reggeva il feudo di Sava la baronessa Ippolita Prato, e padrino dello schiavo durante il battesimo fu Ottavio Prato.
Come ci racconta il Calefati, “istruito dei Misteri della nostra Santa Religione Cristiana, nel dì 12 giugno del 1605 già detto (schiavo) fu condotto in processione per lo paese, quindi nella chiesa Arcipretale di Sava, dove per ringraziamento del Signore Iddio, fu celebrata la Messa Solenne: lo schiavo nel Battesimo fu chiamato Francesco, e fu padrino il Signore Ottavio Prato, battezzante D. Donato del Martire essendo Arciprete D. Donato Gioia…”.[13] Anche qui, tutto rientra perfettamente nel copione organizzativo dell’epoca: come ci ricorda la studiosa Boccadamo, i battesimi degli schiavi in molte occasioni venivano amministrati nella chiesa principale, nel corso di cerimonie solenni,[14] dopo che gli schiavi erano stati portati in processione[15]. La pratica di far sfilare in lunghe processioni gli schiavi liberati (o parzialmente liberati) e battezzati, era molto diffusa, e spesso la processione era accompagnata, oltre che dal suono di campane a festa, da strumenti musicali impiegati nel corteo .[16]
Sulla popolazione di schiavi in Puglia e sul numero di schiavi battezzati ci sono rapporti molto contraddittori, in ogni caso l’esplosione dei battesimi degli schiavi si registra tra il 1602 e il 1610,[17] esattamente nel periodo temporale in cui si inserisce l’episodio savese.
Tutto quanto sopra descritto è esattamente ciò che avvenne anche a Sava. Non vi fu alcun miracolo, alcun intervento o prodigio divino, ma la messa in atto di una prassi tipica dell’epoca: sapendo della detenzione dello schiavo da parte del signorotto locale, gli uomini del clero si attivarono con la procedura usuale dei tempi: raggiunsero il suo “proprietario” e concordarono con lui la conversione e la catechizzazione dello schiavo attraverso i meccanismi soliti e ampiamente collaudati.
Come, e da chi, fu dunque imbastita la storiella del miracolo?
La ricostruzione dell’episodio così come viene propagandata, risale al vescovo Calefati, e ad una sua personale rielaborazione (reinvenzione) dei fatti avvenuta ben 170 anni dopo l’accaduto. Ma andiamo per ordine: nel Registro dei Battezzati dell’Archivio Capitolare di Sava relativo agli anni 1572-1615, sarebbe conservata nota recante la dicitura: “a di 12 giugno 1605 da D. Donato dello Martire fu battezzato lo Schiavo del sig. Marcantonio Rago nomine Francesco, Padrino il sig. Ottaviano Prato, ove fu presente tutto il popolo, e prima di battezzarsi si fè la processione per la terra e si cantò per allegrezza la messa per il miracolo fatto dalla Vergine di Pasano, perchè si spezzò la catena di detto schiavo e per tal miracolo si battezzò”. Questo documento è dato dallo storico locale Annoscia come originale, ovvero risalente all’epoca,[18] e pertanto testimonierebbe che la storia del miracolo come ci è stata tramandata circolò in effetti nel periodo della vita e della conversione dello schiavo. Ma se si legge attentamente ciò che scrive il Coco in merito al medesimo documento, si tratta in realtà di una “copia” postuma, datata 1700. [19] Ovvero, non si tratta del registro originale ma di una copia fatta ben un secolo dopo dall’arciprete Domenico Antonio Spagnolo. Ci troviamo, dunque, già di fronte ad una prima alterazione documentaria: non possiamo sapere, di fatto, se il registro originale conteneva effettivamente l’annotazione e la “notizia” del cosiddetto miracolo, e se era stata registrata in questi termini. Di più, il Calefati inserisce in questo registro una sua personale (e successiva alla stessa stesura della “copia” dello Spagnolo) annotazione autografa (come, ancora una volta, lo stesso Coco riporta): il documento dunque è stato evidentemente manipolato più volte.[20] Dagli studi del Teofilato poi, come vedremo più avanti, sappiamo anche che il Calefati era uno specialista nella manipolazione e nella riscrittura (di sana pianta) di documenti: in altre parole, nella loro falsificazione.
Pasano, tela raffigurante il “miracolo”
In più passi, il Calefati stesso, quasi auto-smascherandosi, ci lascia capire inoltre, che la storia del cosiddetto miracolo aveva in origine molte e differenti versioni, e soprattutto che le prime versioni della storia della liberazione dello schiavo non coincidevano affatto con la sua, che è l’unica che ci è rimasta, avendo lui stesso compiuto un’opera di epurazione delle narrazioni popolari dell’accaduto, e avendo fornito ai posteri (nonché – egli stesso – a posteriori) una sua personale rielaborazione “ufficializzata” nella documentazione ecclesiastica. Già a commento del sopracitato registro battesimale, il Calefati riferisce: “Questa è la vera e netta storia del miracolo tolta dal mezzo del favoloso cepraio, e questa storia la trovo comprovata nel libro primo battesimale di sava, da me registrato ed annotato con diligenza sulla copia fattane dal benedetto Arciprete D. Domenico Antonio Spagnolo nel 1700 (ecco come è scritto) N. 55, XIII a dì 12 giugno 1605…”[21] (segue il testo già riportato di sopra). Il Calefati ci sta dicendo dunque che quel documento è in realtà una trasposizione del registro fatta un secolo dopo, e che lui stesso ci ha messo le mani. Ma soprattutto ci sta dicendo anche, con quella frase “questa è la vera e netta storia… tolta di mezzo dal favoloso cepraio…” che lui ha rielaborato una storia rispetto alle narrazioni popolari.
E’ lo stesso Coco a infondere, senza volerlo, seri dubbi circa la veridicità della versione fornita dal Calefati e circa le ripetute manipolazioni effettuate dal Calefati stesso, nel momento in cui scrive: “di questo miracolo si hanno parecchie narrazioni” (nel senso di differenti versioni) e ancora e soprattutto, quando afferma: “riferiamo il miracolo che si ebbe uno degli schiavi del sullodato De Raho con le parole del Vescovo di Oria Monsignor Kalefati, avendo costui dopo circa 170 anni dall’accaduto raccolte le tradizioni scritte e orali circa il grandioso avvenimento, che come egli dice PROCURO’ ALTRESI’ SPOGLIARE DALLE FAVOLE O ALTERAZIONI POPOLARI”.[22] E’ chiaro, dunque, che il Calefati compie un’ opera di “revisione” della storia, anche rispetto a come si è tramandata oralmente in seno al popolo.
Da notare, peraltro, che la storia del “miracolo” è ricostruita dal Calefati ben 170 anni dopo il presunto accaduto. Da evidenziare anche che viene istituito un processo conoscitivo dell’evento dopo 113 anni dalla data del presunto miracolo (durante il vescovato di Tommaso Maria Francia, nel 1718), e che dopo altri 57 il Calefati (vescovo dal 1781 al 1794) ne stila un rapporto che poi consisterà nella storia del miracolo attualmente conosciuta.
Il processo del 1718, si badi bene, vede protagonista proprio quel Domenico Antonio Spagnolo Arciprete di Sava a quei tempi,[23] ed estensore della copia postuma del registro battesimale: l’ Arciprete raccoglie, a 113 anni di distanza dai fatti, le “deposizioni giurate” di alcuni savesi (verosimilmente vicini agli ambienti del clero, e di un altro ecclesiastico, il Gioia): “Antonio Biasi, Francesco Schifone, Giosuè D’Oria, Francesco e Giampietro Lo Martire, Donato Marino, Domenico Antonio Mero, D. Liborio Gioia”.[24] Questi personaggi così arruolati, lontani oltre un secolo dalla generazione testimone del reale accadimento, “dicono di narrare quanto aveano sentito raccontare da altri vecchi del paese e specialmente dal sig. Dima Mancini, Donato Pernorio e Giovanni Antonio Lo Martire”.[25]
Il processo viene sottoscritto dal Notaio Giovanni Leonardo Elefante di Manduria e dallo Spagnolo stesso, e viene portato poi presso la Curia Vescovile di Oria, “dal Dottore sig. Antonio Muccioli per avere la conferma del Vescovo, alla presenza del quale il Muccioli narrò quanto egli avea sentito e come si era tramandato l’avvenimento ai posteri”.[26] Il Muccioli, un oritano che aveva spostato in Sava la sig.ra Francesca Lo Marirte, è anch’egli persona devota e vicinissima al clero, ed è la stessa persona che fece edificare la cappellina detta “dello Schiavo” in quel luogo nel quale si raccontava fosse avvenuto il miracolo. La costruzione della cappella risale a quello stesso periodo (è datata, difatti, ai primi del XVIII sec.) e proprio in quel medesimo anno del processo, precisamente nell’aprile del 1718, il Muccioli fa istituire messe lette e cantate e lascia dieci ducati annui con atto notarile, per la celebrazione di messe nelle festività.[27] In questa cappella, come noto, fu conservato, quale “prova del miracolo”, anche il famoso masso “caduto dal cielo” (in realtà, una roccia calcarea tipica dei luoghi e dunque raccolta nei paraggi).
Una storia, una devozione e una tradizione completamente ricostruita “inter nos”, insomma!
Importante dovette essere in tutta questa vicenda e nella fiction del miracolo la regia e la “co-produzione” dei Gesuiti, e vediamo perchè.
Il centro dei gesuiti in Puglia era il collegio di Lecce, istituito nel 1583, ma esistente già sin dal 1575 come casa religiosa. Da lì, i gesuiti organizzavano la loro rete di attività e le missioni. Nel 1612 si sarebbero espansi fino a Taranto, ove organizzarono prima una residenza e poi, nel 1624, un collegio. Nel periodo della baronia di Ippolita Prato, come era in uso ai tempi, viveva nel palazzo anche un Cappellano, come peraltro attestato anche in un documento del 1593[28] e in altri a seguire. Il Coco riferisce che a detta carica si susseguirono padri della compagnia del Gesù[29] e, in ogni caso, per certo nel 1624 si trattava di cappellani Gesuiti come risultante dagli atti testamentari della baronessa, che peraltro lasciava in quell’anno ai PP. Gesuiti di Taranto 30mila ducati da prelevare dalla rendita dei feudi di Sava, Aliano e Pasano. Nel 1630 la baronessa Prato muore, e nel 1631 i feudi di Sava, Aliano e Pasano vengono assegnati al Padre Provinciale dei Gesuiti. A seguito di una lunga contesa tra gli eredi Prato e i Gesuiti (durante la quale, sostanzialmente, i Gesuiti non mollarono mai il feudo di Sava), come noto, nel 1743 i Gesuiti divengono “legittimi” possessori del feudo. Si insinua in questa intricata vicenda (per approfondimenti della quale, si rimanda alla lettura del testo del Coco), un dubbio: che la donazione fatta dalla Baronessa ai Gesuiti non fosse un atto della sua piena volontà, ma che le fosse stata estorta! Di questo, ponendosi tuttavia come difensore dei Gesuiti, ce ne da notizia il Coco stesso .[30] Questi particolari, insieme ad altri che esponiamo a seguire, ci danno l’idea non solo di di quanto fosse attiva l’organizzazione dei Gesuiti in Sava, ma anche del peso della loro influenza nella vita politica, amministrativa, religiosa.
Sava era considerato un importante punto di riferimento pugliese dei Gesuiti,[31] i quali, durante il loro periodo di residenza in questo paese, ebbero particolari attenzioni per Pasano; difatti, tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 questi progettarono di ricostruire l’edificio che divenne una sorta di loro simbolo: la nuova chiesa fu portata a compimento nel 1712, e, con nuovi lavori terminati nel 1732, vengono poste ai lati dell’altare le statue di S. Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia dei Gesuiti, e del suo seguace S. Francesco Saverio.
Le missioni dei Gesuiti erano organizzate in modo da avere grande impatto emotivo sulle genti.[32] I racconti di miracoli costituivano parte integrante di questa strategia mirata a creare consenso e impatto nel popolo. I Gesuiti, poi, tenevano particolarmente a diffondere il culto mariano nelle loro missioni.[33] Particolarmente ben accette e sostenute e incoraggiate erano le immagini e le storie delle Madonne miracolose: erano funzionali a materializzare e localizzare il sacro, e a ravvivare la fede nel popolo. Nel caso di Pasano, la storiella del miracolo ebbe anche la funzione di poeticizzare, se non di mascherare, una triste storia di tirannia e schiavitù oltre che di magnificare la supremazia del credo cattolico e del “potere” dei simboli della chiesa cattolica nei confronti delle eresie e degli altri credo.
Una storia simile a quella di Pasano, la si ritrova in un documento dell’ Archivio di Stato di Roma, intitolato: “Conversione Miracolosa d’un turco succeduta nelle Carceri nuove di Roma per intercessione di San Francesco Saverio li 19 Novembre 1689”. In questo documento, di chiaro stampo propagandistico e diplomatico, si narra della conversione di un religioso turco “nemico di Cristo, e dell’ Evangelio” fatto prigioniero e incarcerato. Invano il prete cattolico cappellano del carcere cerca di convertire il prigioniero, peraltro ammalato e moribondo, allorchè il cappellano si sarebbe rivolto a San Francesco Saverio, il santo gesuita, pregando la di lui intercessione per la conversione del prigioniero. In punto di morte, il prigioniero sarebbe stato miracolato dal santo, che gli sarebbe apparso in visione con il crocefisso in mano; alla vista di simile prodigio, il prigioniero avrebbe “spontaneamente” chiesto la conversione e il battesimo e poco dopo sarebbe spirato, tuttavia rigenerato come “figliuolo di dio”. E’ ovvio, dalla lettura attenta del documento, che si tratta della manipolazione di una storia di tirannia e schiavitù e della edulcorazione di un triste accadimento fatto di vessazioni che avevano portato alla morte quel prigioniero. Come lo schiavo di Pasano, inoltre, questo schiavo viene chiamato Francesco, e in questo documento è specificato che il nome gli viene dato in onore del gesuita San Francesco Saverio.[34] E’ probabilissimo che anche il nome assegnato allo schiavo di Pasano non fosse in ossequio al santo Francesco D’Assisi ma a quel Francesco Saverio co-fondatore dei Gesuiti con Ignazio da Loyola e, soprattutto, missionario ed evangelizzatore di stranieri musulmani, di schiavi e di genti di altri credo.
Rispetto alla falsificazione della storia dello schiavo di Pasano e alla invenzione e divulgazione del miracolo, fondamentale fu il ruolo del Calefati, il quale, notoriamente, non era nuovo in tema di imprese manipolatorie: costui fu, infatti, un noto produttore di falsi diplomatici e di falsi storici. E’ celebre per aver inventato di sana pianta notizie in merito alla città di Francavilla Fontana che non corrispondono alla realtà storica, e come falsario è indicato non solo dallo studioso Cesare Teofilato, che ne smaschera diversi falsi,[35] ma anche dallo storico Armando Perotti che lo definisce “uomo inclinato a creare di sana pianta fatti storici e leggende”.[36]
Riguardo a Bari, il Calefati si inventa un manoscritto attribuito al “prete Gregorio” che narra del trasferimento della Vergine Odegitria da Costantinopoli a Bari: la pergamena risulterà poi essere opera e invenzione del Calefati ![37]
Il Teofilato elenca falsi del Calefati riguardo Bari, Brindisi, Francavilla Fontana, ammonendo: “Dove si incontra il nome del Calefati, ivi lo studioso si metta in guardia, perchè sotto c’è l’impostura, quasi sempre”.[38]
Uno dei difensori ad oltranza del Calefati risulta, purtroppo, essere proprio il Coco,[39] che nel XX secolo è anche il principale sponsor e divulgatore dell’invenzione del miracolo di Pasano.
Riassumendo:
a) viene spacciato per miracolo un fatto di ordinaria amministrazione, la conversione di un prigioniero ad opera di un laborioso ed usuale lavoro della diplomazia ecclesiastica dei tempi, come testimoniano tutte le fonti storiche;
b) a concorrere nella divulgazione della storia del miracolo e nella alterazione dell’accaduto storico (datato 1605) sono il clero e le autorità religiose dei tempi, attraverso un lavoro di rielaborazione della realtà e della storia sviluppatosi in un arco temporale di oltre due secoli e che vede coinvolti: 1) un Arciprete (Antonio Spagnolo) che nel 1700 rielabora, riscrivendolo, il documento del registro dei Battezzati; 2) un Vescovo, Tommaso Maria Francia, con un processo conoscitivo istituito nel 1718 (113 anni dopo); 3) dei “testimoni” indiretti (e perciò niente affatto testimoni) che raccontano anche loro i fatti a 113 anni di distanza dal loro svolgimento; 4) un altro Vescovo (noto per i suoi falsi diplomatici), il Calefati, con un suo rapporto stilato nel 1775 circa; 5) i Gesuiti, notoriamente e storicamente interessati oltre che alla conversione di schiavi ed eretici, alla magnificazione del culto della Madonna anche attraverso la diffusione propagandistica di storie di miracoli e di prodigi.
c) Non conosciamo (anche se possiamo ben risalire ai fatti storici, agli accadimenti reali) le versioni originali della vicenda tramandatesi oralmente in seno al popolo, sappiamo però da analisi documentaria che tali versioni orali furono manipolate e alterate dal vescovo Calefati. In altre parole, possiamo agevolmente risalire alla storia e alla cronaca, che non sono quelle divulgate dalle autorità ecclesiastiche, ma non conosciamo le versioni popolari, la leggenda tramandatasi in origine, che certamente non è quella che il Calefati ebbe cura di “spogliare delle alterazioni popolari”, come scrive (e come tradisce) il Coco. Sappiamo però che il popolo, oltre ad avere versioni differenti da quella raccontata dal Calefati, ne rielabora, forse tempo dopo, e ne ribalta significati, attribuendo poteri miracolosi più alla pietra stessa che alla Madonna, in uno stile perfettamente paganeggiante. Difatti, la ricercatrice e scrittrice Bianca Capone ci racconta alcuni particolari inediti e perdutisi nel tempo, ovvero l’attribuzione popolare di un potere magico e taumaturgico alla pietra stessa, che non a caso diviene, sin dai tempi della sua deposizione in una nicchia appositamente costruita, oggetto di culto e venerazione essa stessa, quanto e forse più che la Madonna. La gente, raschiava con coltelli e temperini la pietra, credendo che questa pietra avesse poteri magico-taumaturgici suoi propri, e perciò ne ingeriva la polvere![40] L’unico vero prodigio è proprio questo: la capacità del popolo e della cultura dell’epoca dell’oralità di reinventarsi storie nonostante le imposizioni di versioni “dall’alto” e di adattarle ai propri bisogni, al proprio sentire, alla propria sensibilità e alle proprie origini e tradizioni.
Alla luce di tutto quanto sopra, occorre fare un’ultima considerazione: la cosiddetta rievocazione storica celebrata annualmente a Sava, denominata Corteo dello Schiavo, ha poco o nulla di storico dal momento che innanzitutto non rievoca il reale accadimento storico, e paradossalmente nemmeno una leggenda popolare, essendo imbastita sulla base del racconto palesemente falso, e postumo, del Calefati. Per poter essere coerentemente veicolata come rievocazione storica, dovrebbe essere inscenata rappresentando i fatti così come sono stati sin qui ricostruiti.
Gianfranco Mele
- cfr.: Domenico Ludovico De Vincentiis, Storia di Taranto compilata dal P. Domenico Ludovico De Vincentiis lettore domenicano, parte politica, Volume 2, Tipografia Latronico Taranto, 1878, pp. 197-98; vedi anche : Gianluca Guastella, La masseria Battaglia di Lama e le sue vicende storiche, Storie di “battaglie, nobili e saraceni” TarantOggi, lunedì 25 Gennaio 2010, pp. 12-13. ↑
- Berardo Candida-Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionali d’talia, Stab. Tipogr. De Angelis, Napoli, 1875, vol. II, pag. 105 ↑
- Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipogragico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, pag. 272 ↑
- Primaldo Coco, op. cit., nota (1) a pag. 272 ↑
- Luigi Spagnolo, Orazione panegirica in lode della Madonna di Pasano, manoscritto, 1801. Vedi anche: Gianfranco Mele, Propaganda miracolistica sulla Madonna di pasano (Sava): alcuni stralci di un manoscritto ottocentesco, Academia.edu, 2017 ↑
- v. Primaldo Coco, op. cit., pp. 270-271 ↑
- Cfr. Primaldo Coco, op. cit., pag. 277 ↑
- Ancor oggi, nella periferia di Sava, sulla strada che porta a Pasano, c’è un tratto adiacente la strada zeppo di tal genere di massi, e molti altri se ne vedono in via Montebello, altra zona a poche centinaia di metri di distanza dal luogo del cosiddetto miracolo ↑
- Giuliana Boccadamo, Napoli e l’ Islam. Storie di musulmani, rinnegati e schiavi in età moderna, D’aura Ed., Napoli, 2010, pag. 130 ↑
- un classico, quello delle torce accostate al viso, usanza tipica della congregazione gesuita detta “degli schiavi”: vedi Giuliana Boccadamo, op. cit., pag. 84 e nota (63) alle pp. 84-85 ↑
- Cfr. Giuliana Boccadamo, op. cit., pag. 141. Più in generale, e di pari passo, era la macchina dell’ Inquisizione ad occuparsi di eretici e miscredenti. ↑
- Berardo Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionali d’Italia, Stab. Tipogr. De Angelis, pag. 104 ↑
- Alessandro Maria Calefati, cit. da Primaldo Coco, Cenni Storici di Sava, pag. 274 ↑
- Giuliana Boccadamo, op. cit., pag. 143 ↑
- Giuliana Boccadamo, op. cit., pag. 134 ↑
- Maria Pia Casalena, Luoghi d’Europa, spazio, genere, memoria, Archetipo Libri, 2011, pp. 28-29 ↑
- Giuliana Boccadamo, op. cit., pag. 5 ↑
- Mario Annoscia, Il Santuario della Madonna di Pasano presso Sava,: cronaca, leggenda, tradizioni, Del Grifo Ed., Lecce, 1996, pag. 16. ↑
- Testualmente, dal Coco, che a sua volta cita un passo del Calefati: “… questa storia la trovo comprovata nel libro primo battesimale di sava, da me registrato ed annotato con diligenza sulla copia fattane dal benedetto Arciprete D. Domenico Antonio Spagnolo nel 1700” (Primaldo Coco, op. cit., pag. 275; l’intero passo è ripreso più avanti in questo scritto). ↑
- Cfr. Primaldo Coco, op. cit., pp. 275-276 ↑
- Alessandro Maria Calefati, cit. da Coco, Cenni storici di Sava, pag. 275 ↑
- Primaldo Coco, op. cit. ↑
- Cfr. Primaldo Coco, op. cit., nota (2) a pag. 275 ↑
- Ibidem ↑
- Ibidem ↑
- Ibidem ↑
- Primaldo Coco, op. cit., pag. 277, con citazione dall’ Archivio Vescovile di Oria Conclusioni Capitolari di Sava vol. I N. 33 ↑
- Primaldo Coco, op. cit., pag. 359 ↑
- Primaldo Coco, op. cit., pag. 116 ↑
- Primaldo Coco, op. cit., pag. 126 ↑
- David Gentilcore, Il vescovo e la strega. Sistemi del sacro in Terra d’Otranto all’alba dell’età moderna, Besa Editrice, Nardò, 2003, pag. 83 ↑
- David Gentilcore, op. cit., pag. 84 ↑
- David Gentilcore, op. cit., pag. 205 ↑
- Archivio di Stato, Conversione Miracolosa d’un turco succeduta nelle Carceri nuove di Roma per intercessione di San Francesco Saverio li 19 Novembre 1689, Roma, Archivio di Stato, Miscellanea Carte Politiche, busta 7, fasc. 359, 1\689 ↑
- Cesare Teofilato, Sui falsi diplomatici di Monsignor Calefati Vescovo di Oria, in: Archivio Storico Pugliese, a.5, 1952 ↑
- Armando Perotti, Appunti di storia castrense. Il Vescovo borghese, Bollettino mensile del santuario della Madonna di Pompei in Castro, anno XI, n. 6, 1906, pp. 7-9 ↑
- Cfr. Cesare Teofilato, op. cit.; vedi anche Italo Interesse, Un burlone, un furbastro, un maniaco? Quotidiano di Bari online, 2015 ↑
- Cesare Teofilato, op. cit., pag. 340 ↑
- Cesare Teofilato, op. cit., pag. 338 ↑
- Bianca Capone, Attraverso l’Italia misteriosa, Longanesi, 1978 ↑