Vita e morte sono un indissolubile attraversamento nell’Ermetico Leonida di Taranto che offre la voce agli Ermetici versi quasimodiani della sera.
Il pianto della vecchia Maronide di Leonida di Taranto porta nella voce e nel verso l’ironia dell’epigramma greco. Anticipa tutto ciò che si ascolterà nella lirica latina. Il mondo latino trasferisce ambienti e costruzioni in una innovazione virgiliana. Così Leonida:
“Si lamenta
anche sotto terra: non per i figli
o il marito lasciati senza nulla.
Piange solo per il calice vuoto”.
Poeta esistenzialista, Leonida.
Trova nelle strade il vissuto e le interpretazioni delle esistenze. A Leonida di Taranto, Salvatore Quasimodo deve il suo approccio “ermetico” nel passaggio tra la grecità e la latinità nel suo apparentarsi con i Lirici.
I Lirici greci e latini in un percorso che si vive nella Antologia Palatina. Quasimodo traduce da poeti e l’impatto con il vocabolario lirico è molto più forte rispetto ad un traduttore di mestiere. Leonida, in modo particolare, rappresenta la grecità antica.
Infatti il suo contesto è quello degli anni 330 o 320 a.C. fino al 260 a.C. circa. Era nato a Taranto e, dopo lunghe erranze, muore ad Alessandria d’Egitto. Il poeta dell’esilio e nell’esilio scopre il senso del viaggio. La Magna Grecia e l’Egitto. Terre orfiche attraverso le quali il viaggio diventa un pellegrinaggio per scavi di memorie. La grecità sommessa. “…la corda… mediterranea…”.
La virgilianità che recupera l’omerico senso del viaggio. Il pianto antico. Il vento che raccoglie le ore di Tindari. La madre nella sua “dulcissima” ora. Il padre tra le macerie della guerra e del tempo che diventa rovina di una nostalgica memoria.
Salvatore Quasimodo, nato a Modica il 20 agosto del 1901 e morto a Napoli il 14 giugno del 1968) in una religiosa parola che diventa linguaggio dell’uomo nella sua contemporaneità e nella sua pietas. Una madre. Una terra. La ricerca della cristianità. Salvatore Quasimodo ha cercato di leggere la madre e la terra con la spiritualità e la testimonianza.
Si intreccia così il rito pagano e quello cristiano. La Magna Grecia è un intreccio. . I lirici greci. Soprattutto Leonida di Taranto. La sua è un abitare il vento e le voci greche del Mediterraneo.
Quasimodo:
“Il greco ritornava a essere ancora un’avventura, un destino a cui i poeti non possono sottrarsi”.
A Leonida di Taranto dedica, oltre alla traduzione, un saggio di straordinaria valenza estetica. L’esilio interiore di Leonida è il suo esilio in viaggio. Un Quasimodo legato profondamente a Leonida e a D’Annunzio.
Leonida sembra una costante nel vissuto greco di Quasimodo. Leonida nel vento di Taranto recita:
“Riposo molto lontano dalla terra d’Italia
e di Taranto mia Patria
e ciò m’è più amaro della morte.
Tale destino hanno i nomadi
a conclusione della loro inutile vita!
Le Muse però mi hanno caro
ed a compenso delle mie afflizioni
mi offrono una dolcezza di miele.
Il nome di Leonida non tramonta per esse:
i loro doni lo testimoniano sino all’ultimo sol”.
Di Leonida dirà:
“… era un uomo libero, figlio di una città che ai tempi in cui vi abitava era ancora l’emblema di una confederazione civile nemica dei compromessi e favorevole al rispetto dei diritti dell’uomo…”.
Una terra che è isola. Un’isola che è mondo arabo e greco. Cristianità e rivelazione. La stessa terra, lo stesso viaggio, lo stesso camminamento esistenziale.
La poesia che si fa lirismo spirituale in un canto in cui l’epigrammismo diventa nostalgico senso della terra e del mare in un tempo si attraversa:
“un pellegrinaggio nel Mediterraneo” (Quasimodo).
Leonida, nomade tra terre e parole, diventa per Quasimodo il porto mai sepolto e sempre veliero tra le onde. Dirà:
“Come Odisseo il suo marinaio affronta la solitudine. Ma qui l’avventura non ha i contorni del poema omerico ed è … antiromantica”.
Quasimodo trova in Leonida il punto di incontro con il viaggio e l’estetica come lo vivrà con D’Annunzio in un saggio del 1939:
“… a D’Annunzio aggiungeremo che egli fu l’ultimo poeta nostro che abbia predato la solitudine necessaria al suo lavoro, senza cadere in servitù di alcuno. Oggi i poeti si muovono fra coltelli”.
Tra Leonida e D’Annunzio, Quasimodo, con La Pira, vive i naufragi e le tempeste in un viaggio migrante e da esule in una terra chiamata isola e mare attraversando i luoghi di Virgilio e di Dante. In una terra dall’alba nuova che verrà vissuta come una vita nuova (nova). Così come è stato in Leonida, esule e alla ricerca sempre della sua terra mai dimenticata.
Così Leonida:
“Passate senza fare rumore oltre
la mia tomba, non svegliate la vespa
pungente che posa nel sonno. L’ira
di Ipponatte che ha osato scatenarsi
contro i genitori, è ora in pace.
Ma, attenti: le sue parole di fuoco
possono bruciare pure dall’Ade”.
Un tempo immenso e un tempo metaforicamente infinito. Nel Quasimodo che rilegge Leonida si avvertono dei legami che hanno nella grecità una profonda visione omerica. L’indefinito e il ritorno sono un sigillo che scava la vita e la morte. Il suo riflettere sulla morte ha anche una visione onirica.
In Leonida di Taranto si ascolta:
“Infinito fu il tempo, uomo, prima
che tu venissi alla luce, e infinito
sarà quello dell’Ade. E quale parte
di vita qui ti spetta, se non quanto
un punto, o, se c’è, qualcosa più piccola
di un punto? Così breve la tua vita
e chiusa, e poi non solo non è lieta,
ma è assai più triste dell’odiosa morte.
Con una simile struttura d’ossa
tenti di sollevarti fra le nubi nell’aria!
Tu vedi, uomo, come tutto è vano:
all’estremo del filo c’è un verme
sulla trama non tessuta dalla spola.
Il tuo scheletro è più tetro
di quello di un ragno. Ma tu
che, giorno dopo giorno, cerchi
in te stesso, vivi con lievi pensieri,
e ricorda solo di che paglia sei fatto”.
La morte e la terra. Il viaggio e la grecità. La sensualità e gli echi che hanno simboli e miti. Il confronto tra Leonida e Quasimodo è un itinerario errante. Resta tale. Leonida muore lontano dalla sua terra. Quasimodo (Cfr. Video di Pierfranco Bruni “Il suono e la parola. Salvatore Quasimodo: https://www.youtube.com/watch?v=WeIuFIqRaD8) tra i suoi viaggi distante dalla sua isola. Un errare che accomuna due poeti di epoche distante tra il tempo tracciato e il tempo vissuto tra la grecità e l’Egitto in una griglia di simboli e di archetipi che recitano la vita e la morte. Leonida è l’errante che vive costantemente nel viaggio reale e metaforico del figlio di Modica.
Una erranza che è completamente attraversata dalla nostalgia. La nostalgia del tempo che della in – finitudine un immaginario che ha il canto della grecità profonda. Una “terra impareggiabile” come la vita come la morte: “Non ho paura della morte, / come non ho avuto timore della vita”.
Pierfranco Bruni