Si è svolta sabato scorso, presso la saletta del Convento di San Francesco, a Manduria, la presentazione dell’ultima fatica editoriale di Tonino Filomena, scrittore e storico documentarista, impegnato nella valorizzazione dei Beni culturali immateriali, quali le tradizioni e i valori del territorio di Maruggio e dintorni. Ad accompagnare il folto pubblico presente nella introduzione alla pregiata pubblicazione, la professoressa Erika Bascià, docente del Liceo De Sanctis Galilei, di Manduria, l’avvocato Mary Maggi emozionante voce narrante e l’avvocato Domenico Sammarco, presidente della Pro Loco, di Manduria.
La memoria dell’infanzia è piena di fantasie, sogni, immaginazioni, che non sapremmo distinguere da ciò che ora, da adulti, consideriamo “vero”. Lʼautobiografia della fanciullezza, che porta la firma di Tonino Filomena, non sʼinterroga sulla vita, ma sulla memoria, portatrice di una identità forte e autentica, che si riscrive e si fortifica.
“L’infanzia perduta”, questo il titolo del libro, è quella dellʼinvenzione di mondi possibili per l’affermazione d’una dolcezza malinconica, ma rassicurante. Il libro nasce da unʼassenza, da un vuoto, descrive lo spazio letterario non ancora abitato dalla grafia, dà voce a quella freschezza infantile, mediante la quale diventa possibile riappropriarsi di un passato obliato, sedimentato nei fondali della mente. Pagina dopo pagina, il testo si forma, costruisce un diario di ricordi, restituisce il tempo, accogliendo frammenti mnemonici preziosi. La memoria autobiografica sʼintreccia con quella collettiva, la storia personale si lega ai racconti dei suoi concittadini, personaggi di questo magnifico dipinto.
In “Di alcuni motivi in Baudelaire”, Walter Benjamin faceva notare come lʼesperienza letteraria di Proust e quella filosofica di Bergson rinviassero a due diverse concezioni della memoria: mémoire pure e mémoire involontaire.
Se in Proust, il ricordo volontario non conserva nulla del nostro passato e tutti gli sforzi che compiamo per evocarlo sono vani, nel filosofo francese, viceversa il fatto di volgersi allʼattualizzazione intuitiva del flusso vitale, sembra essere una questione di libera scelta. Si delinea, allora, una nuova strategia obliqua, molteplice, allargata, ruotante in unʼellisse, i cui fuochi, da un lato la narrazione autobiografica, dallʼaltro la rievocazione dell’innocenza, non si concepiscono lʼuno senza lʼaltro, legati in una perfetta specularità. Ne “La chambre claire” Roland Barthes si dichiara mosso da un desiderio ontologico verso la fotografia. Quel che è stato, ritorna a sé nel presente, nella sua forma concreta e mesta, perché priva di avvenire. Lʼarte fotografica realizza la forma dell’istante nel suo più alto grado. Quello che nota Barthes è che, nella fotografia cʼè una posizione congiunta di passato e presente: essa racchiude il mistero semplice della coesistenza, rinnovando concretamente ciò che, esistenzialmente, non potrà più verificarsi. Ma, La camera chiara non è soltanto uno dei testi più belli ed evocativi di teoria fotografica, è anche un quaderno intimo, che Barthes scrive all’indomani della scomparsa di sua madre. “Ritrovare” lʼessenza materna in una foto, ridisegnarne i lineamenti, annusarne lʼodore, percepire il tocco della sua carezza. Se è vero che Barthes, nella prima parte della sua opera, prende in esame fotografie di diversi artisti come Avedon, Mapplethorpe, Nadar, Niépce, è anche vero che egli afferra l’essenza, lʼeidos della Fotografia, guardandone una di famiglia.
Con la scrittura, dunque, Tonino Filomena annoda il momento ritrovato con quello perduto e il libro non è più restituzione dʼun età passata, ma misura del tempo che scorre, intreccio mirabile di fili colorati, per la realizzazione di un arazzo introspettivo, istantanea di memoria ed emozione, che non scivola mai nell’anacronismo. La biografia di ciascuno di noi rappresenta una faccenda molto delicata, a volte complessa da ripercorrere per tutto il carico emotivo che porta con sé, ma altrettanto naturale come il raccontare di un nonno ai nipoti. Come afferma Deleuze in “Marcel Proust e i segni”, la ricerca del tempo perduto «non è semplicemente uno sforzo per ricordare, una esplorazione della memoria», essa è piuttosto la narrazione di un apprentissage, cioè dell’apprendimento di emozioni e sentimenti, che costruiscono la stratificazione della memoria emotiva, consentendoci di dare forma all’incompiutezza in un rapporto dinamico tra il prima e il dopo, tra il nostro passato e il nostro presente.
“L’infanzia perduta” di Tonino Filomena è un racconto arioso, leggero e umano. Ad ogni pagina si ricorda qualcosa, si respira un profumo, si gusta un sapore, si partecipa ad un gioco. L’esperienza del ricordo è una parte molto importante della nostra vita: essa ci permette di tornare, quando ne sentiamo il bisogno, a luoghi realmente vissuti, a persone concretamente amate, a eventi o fatti, che ci hanno coinvolto senza per questo rimanere intrappolati nel passato. E’ questa la funzione del ricordo, poterci tornare, tutte le volte, senza che questi vengano consunti. Non è una dimensione fantastica, né di sogno, ma ha la proprietà di essere distante nel tempo, quindi non ha i contorni di durezza del nostro presente, ma ha una velatura e una sfumatura, che solo il ricordo con la sua lontananza temporale può offrirci, concedendo un attimo di tregua dall’impatto con il reale. Senza la dimensione del ricordo, noi saremmo nulla; il passato ci restituisce le nostre radici, riportandoci i valori autentici, che abitano le pieghe dell’anima. Solo passato e presente insieme possono offrire la possibilità e l’apertura a un futuro.
Da buon empirista, Bergson pone l’esperienza come origine della conoscenza; un’esperienza, però, che si presenta sotto una duplice natura: ordinaria, quando è dominata dalle necessità dell’azione, dalle abitudini del corpo; straordinaria, quando diviene intuitiva. In origine, l’intelligenza ha una natura pragmatica e non teoretica, essa ha sempre a che fare con “qualcosa” ma, al di fuori delle abitudini contratte per l’azione, può acquisirne una conoscenza diretta, interna, in un certo senso istintuale. Essa può rivolgersi verso l’ordine vitale, verso il tempo che è creazione. La natura del pensiero è cinematografica perché rappresenta l’unico metodo efficace nella pratica; sulla pellicola cinematografica ciascun fotogramma della scena si prolunga in quello successivo e, quando l’apparecchio è in funzione, il movimento si riproduce sullo schermo. Ma, è un falso movimento, un movimento prodotto dall’immobile e ricomposto in un apparecchio meccanico. Nel pensiero, la realtà che scorre viene guardata dall’esterno e vengono fissate sul suo divenire delle istantanee; quindi, si ricompone il movimento, inserendo le istantanee, una dopo l’altra, in un divenire astratto e invisibile, che si riproduce nella coscienza (apparecchio).
Il libro di Tonino Filomena, ci mostra come ogni persona abbia bisogno di percorrere a ritroso “il nastro della memoria” per tornare, anche se per pochi istanti, in alcuni luoghi del passato, per comprendere meglio il proprio viaggio. La riflessione sul tempo diventa un momento essenziale nell’autocomprensione dell’io. E, come in Dalì, l’orologio, strumento di precisione e di misurazione, perde la sua consistenza materica e razionale deformandosi, sciogliendosi nella dimensione, dove la memoria degli eventi e delle sensazioni è legata allo stato percettivo, così ne “L’infanzia perduta” il tempo, non è tangibile e nemmeno quantificabile, ma rappresenta l’aspetto psicologico dell’evoluzione individuale e la narrazione diventa metafora della sua flessibilità. Sovente i ricordi affiorano spontaneamente senza un apparente motivo specifico, se non per l’automatico, quanto a volte inconscio, bisogno di guardare la nostra vita da tutte le angolazioni. Altre volte invece, il passato diventa un luogo nel quale rifugiarsi per trovare riparo, creando una sorta di immunità da rischi e pericoli generati nel hic et nunc. Nella sua opera, Tonino Filomena esprime tutta la potenza del ricreare una piacevole visione, come se dipingesse su di una tela, passando le pennellate più fresche di colore su quelle ormai già asciutte da tempo, per rendere più spessa la pittura, più corposo il tratto, più vivace il segno. Resta, comunque, imprescindibile, che tornare sulle tracce del passato è un modo per riconciliarsi con parti della propria sfera emotiva, ancora attive e non sempre ben chiare alla nostra consapevolezza. Il ricordo è come un faro, che si erge nel punto più alto di una scogliera, per indicarci la rotta sia nelle sere di tempesta, quando le onde delle passioni si infrangono tumultuose sulle scogliere della realtà, sia quando, placati i venti, la quiete delle acque accarezza dolcemente la spiaggia, distesa sotto argentei raggi di luna.
Alessandra Basile