Alla fermata dell’ultima strada, quella non illuminata, è lì che l’ho vista.
Quella sera era fredda, ventosa e pioveva. Lei non aveva nulla che la rendesse semplicemente scompigliata. – Un’illustre disgraziata – ho pensato, quando, nonostante il gelo, la osservavo meglio. Il suo volto era violaceo, forse per le troppe ore all’aperto ma mi sorrideva man mano che mi avvicinavo sempre di più. Ho guardato ancora il suo esile corpo bagnato e tremante, coperto solo da pezzi di stoffa fradici che colavano di rosso. Il colore purpureo del tessuto scolorava sulle gambe bianche. Ho pensato – stasera, come me, non può che essere una passeggera sfortunata – e mi son seduta. Mi sono appoggiata al suo fianco, su una barra di ferro vicino all’immondizia per reggermi forte, per non essere trasportata dal vento come il mio ombrello ormai rotto che ho visto volare lontano. Ho cercato nella mia borsa nella speranza di recuperare qualcosa anche per lei, che potesse in qualche modo, ripararla dalla violenza degli scrosci d’acqua. Trovato un cappuccio impermeabile d’emergenza, le ho coperto il capo.
“Quanto sei bella!” Mi ha detto.
“Anche tu” le ho risposto. Erano belli davvero il suo grato sorriso e i suoi occhi pieni di meraviglia come quelli dei bambini, anzi lo erano ancor di più. Increduli.
“Perché, come me, sei qui?” Le ho chiesto.
“Sono in periferia perché sarei una puttana e, per qualche spicciolo, devo spicciare, tutto fino in fondo, in modo spiccio. Devo capire all’istante come condurre la spicciolata brevemente, facendo in modo che non sia sprecata”.
Continua a dirmi che deve fare, ascoltare, capire e consolare chi, su di lei, soddisfa ogni capriccio per il gusto di vederla giù, sempre più, fino in fondo.
“Complimenti!” Le ho detto, non è cosa da tutte “Sono onorata di averti conosciuto”.
Improvviso e forte è stato il mio turbamento provocato da apprensione e commozione e ho cercato un modo per farla ancora parlare. “Mostrami come la vita si è mostrata a te e dimmi, se vuoi, cosa hai da dire, cosa hai da chiedere a Iddio, che ancora non mi sembra, ti abbia aiutato.”
Lei ha accolto le mie parole donandomi le sue.
“Come ogni arte e mestiere, c’è chi lo fa per campare, e chi detiene o subisce un potere.”
Proprio a opera d’arte la sua spiegazione. O una tratta bancaria che offre scontati vantaggi. O la pubblicità attraente del film scandaloso che dal cartellone era esposta persino vicino alle parrocchie. O magari l’odore dolce dei profumati calendarietti del periodo natalizio, quando ricevere il Divino, conduce meglio al profano. Tutto questo era lei.
Osservandola ho pensato al tipico periodo adolescenziale a quando credi di poter fare tante cose.
Io avevo messo in conto anche la probabilità di farmi monaca e sorrido, nonostante lo strazio. Indosso uno straccetto che se tiro su si vede troppo giù e se tiro giù, si vede troppo su. Forse con una mini tonaca, avrei potuto fare di più perché il corpo di una donna non si deve vedere ma intravedere e se intra sta per dentro, lei mi ha permesso di sfiorarle il cuore. Puttana, un vocabolo tanto vuoto che fa sentire la bocca piena. Esprime il massimo della spregevolezza ma, come un antipiretico, un antiinfiammatorio, un antidolorifico è largamente distribuito alla donna vicina e lontana, all’amica e nemica, alla ricca e poveraccia, alla figlia, alla sorella, alla madre.
Quest’assenza di rispetto per il corpo femminile fa mormorio e cresce, e così diventa una parola “forte” puttana. Un volto, una storia, un vuoto che m’indigna.
“Ci sarai domani sera a questa fermata?” Le chiedo.
“Sì, verrò per te, perché senza chiedere, mi hai ascoltato e senza pudore, hai letto nel mio cuore. Verrò, perché con te non ho avuto, neanche per un attimo, timore.”
Certo che ho letto. Ho letto sul muro annerito dell’anima e tutto m’induce alla sua angoscia, al suo sconforto. “Voglio sapere ancora cos’hai da dire e, magari, farti un applauso, ma sappi che di quest’umana collera qualcuno dovrà risarcirti e ripagarti. Ti darà il dovuto di tutto ciò che ti è stato rubato e tanto sarà il riscatto, per il resto che dire?”.
“Fate voi” dirai “tenete la mancia e, se ne sappiano servire! Eh sì, è proprio un’impresa, quella della spesa! Quella pubblica e privata.”
Vorrebbe poter salvare le sue anime sorelle, mi ha detto, sono tante, rinchiuse in una stanza, picchiate, seviziate, drogate e amputate dell’anima. “Hanno la bocca aperta forse per esalare l’ultimo respiro, e attendono distese, con il sogno mai vissuto qualcuno che ne abbia cura. Potrebbero essere delle splendide creature, e amen.”.
Il nubifragio, quella sera tutto oscurò. Avrei voluto avere anche una candela per accenderla nella stanza del suo cuore per vedere meglio le sue lacrime e raccoglierne una per spegnerla. Per spegnere tutto ciò che brucia l’anima. Per il dolore, la rabbia, la giustizia. Il peccato dov’è?
Mentre mi soffermavo sulla mia ombra allungata sul marciapiede, lei mi ha informato che a questa fermata, puntuale giunge l’ingiustizia, tutti i giorni. E così, con queste sensazioni d’indicibile, di tutto ciò che oltre non so dire, mi sono allontanata. Sono andata via con il vento che scompaginava la mia agenda e mi portava via il numero della corsa e l’ora della fermata dopo, della stazione più grande. E’ difficile fornire notizie compromettenti, descrivere con la cultura dei colti, perché mi accorgo di aver conosciuto appena. A volte raccolgo le lacrime degli sconfitti, degli esclusi, dei miserabili. Quella sera ho raccolto i brandelli dei sogni interrotti e delle illusioni, anche quelle, stracciate. Le avevo messo in mano anche una banconota che era volata via con il mio ombrello. Forse ho ascoltato senza voce, il mio sguardo è stato senza occhi. Il suo inverno non è come il mio perché non ha ricordi caldi. Se non verrà più a quella fermata, la cercherò e la troverò. Quell’asse di ferro vicino all’immondizia è il nostro ponte. E il nostro non sarà mai più un incontro senza corpo.
Per scriverci e segnalarci un evento contattaci!