“ Lu sutazzu magicu si usava pi sapiri la verità o cuddu ca putìa succèdiri, e si usava cussì: ppuntài la forbici larga, e doi cristiani frontali cu nu tìscitu mantinìunu la forbici, e dicìunu li parole magiche, e puei dicìunu cuddu ca vulìunu sapìri. L’ aggia usatu puru iu cu frama Fernandu …”
Queste, le parole di una donna di Sava, in una nostra recente conversazione sulla pratica magica detta “ti lu sutazzu”.
L’ origine di questa pratica è molto antica, si tratta di una forma di divinazione detta Coscinomanzia (da κόσκινον, = crivello, e μαντεια = divinazione), che era molto praticata sia dagli antichi greci che dagli antichi romani. Un papiro magico greco (PGM IV, 2303) la cita, e la definisce come uno dei più antichi simboli dell’arte divinatoria.
Da un’opera ottocentesca sugli usi degli antichi greci, a cura di J. Robinson, si legge:
“Κοσκινομαντεια, si faceva col mezzo di un un crivello, e si impiegava ordinariamente per iscovrire i ladri, e si faceva nel seguente modo. Si attaccava il crivello ad un filo, che lo tenèa sospeso, o anche si ponevano un paio di forbici, che si tenevano con due dita. Si pregavano in seguito gli dei a volerli bene rischiarare, e si ripetevano i nomi delle persone sospette; e quegli al cui nome il crivello si moveva, o si voltava, si supponeva che fosse il ladro”
Difatti, esistono due principali varianti di questa forma mantica: una con l’uso del setaccio (il popolare attrezzo utilizzato per cernere la farina) e delle forbici, puntate nel cerchio del setaccio stesso, sorrette da due persone (come descritto nel primo esempio); l’altra con il setaccio, o strumento analogo, appeso ad un filo.
Diversi autori dell’antichità ne fanno riferimento, tra cui Teocrito di Siracusa (315-260 a.C.); Luciano di Samosata (II sec. d.C.), Lucio Flavio Filostrato (172-247 d.C.). Ma la divinazione con il setaccio viene usata anche in epoca medioevale e rinascimentale, e ce ne parlano tra gli altri il filosofo cinquecentesco Pomponazzi, l’alchimista Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, Pietro Aretino. Il frate Francesco Maria Guaccio, nel suo Compendium maleficarum (un manuale di demonologia e stregoneria edito nel 1608), tratta espressamente e dettagliatamente della coscinomanzia indicandola come pratica di magia divinatoria molto diffusa per individuare ladri o ritrovare oggetti rubati o smarriti, ma anche per praticare sortilegi “ad amorem”. La divinazione con il setaccio difatti era molto utilizzata per scoprire gli autori di un furto o di un delitto, ma si estendeva anche all’utilizzo profetico-oracolare per qualsiasi interrogativo concernente aspetti vari della vita (interrogazioni sul futuro, su questioni sentimentali, ecc.). A Sava ritrovo utilizzi sia per individuare persone sospettate di furti e altre azioni considerate riprovevoli, che per le altre finalità sopra dette, mentre Enzo Pagliara ci fa sapere che: “a Tuglie c’era qualche macara che lo faceva su richiesta anche in caso di amore in sospetto di falsità…”.
In una antica opera di area tedesca, il De furtu (XII sec., riedito nel XIII sec.), si ritrova una dettagliata descrizione della pratica coscinomantica. Trattasi di un codice contenente testi in latino e in tedesco, che riporta una serie di prescrizioni utili a scovare l’autore di un furto. La parte relativa alla mantica con il setaccio recita così:
“Sul furto. Prendi un setaccio e conficcaci in mezzo un fuso. Quindi infila un altro fuso e fai tenere il secondo con le dita contro un altro e chiama dentro tutti quelli che tu sospetti di furto e pronuncia l’incantesimo verso di loro: “chi ha rubato questo è qui dentro”. L’altro dica: “egli non è”. Pronunciare le parole per tre volte, poi dì: “Dio, ora afferra il vero colpevole”. E metti del sale sul setaccio, nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito santo, nel nome di tutti i Santi, nel nome della Santa Croce. E pronuncia quindi queste parole a forma di croce.” (seguono nel testo sei simboli di croce e parole illeggibili in corrispondenza delle croci sovrascritte).
Per tornare all’utilizzo di questa pratica nel nostro territorio, possiamo citare gli atti relativi ai processi per stregoneria del Tribunale del Santo Officio di Oria, in cui è presente una descrizione particolareggiata della pratica del “furnaru”:
“Si pigli un fornaro ed in mezzo di dietro detto fornaro si mettano cinque croci con un paio di forbici s’aggiustino al centro di detto fornaro e si dichino le seguenti parole: per intercessionem S.S. Petri et Pauli et S. Antonij Abati ti priego di dirmi la novità, in difetto ti lego siccome S. Giovanni legò l’agnello, e ciò detto se detto fornaro si moverà, era segno di si, se non si moverà è segno di no, e poi si leghi la detta forbice con una fettuccia negra e se si moverà dentro solo detto fornaro era segno di sì, se non, di no.”
Una versione molto rimaneggiata dell’orazione sopra detta, ma con contenuti simili (è presente sempre S. Pietro, insieme a un indecifrabile “San Bò”) la raccolgo di recente in Sava, recitatami da Gabriella Lorusso:
“San Piè, San Bò… timmi sutazzu mia, timmi tutta la verità…” .
Questa pratica divinatoria difatti è ancora in uso in diversi paesi del Salento, nell’ambito delle credenze tramandate dalla antica cultura contadina. Si tratta, come per altre pratiche trasmesse nell’ambito di un complesso di credenze legate al masciarismo, di saperi esoterici derivati da un paganesimo persistente e che si è adattato, nel tempo, ai mutamenti religiosi nell’ambito del credo collettivo. Per questo motivo, le procedure e le “formule” sono state cristianizzate, ovvero contaminate da elementi della religiosità dominante. Anticamente si credeva che fosse un demone a provocare il movimento del setaccio, e tale demone era invocato da una frase segreta e pronunciata a voce bassa: il demone, insieme alle divinità pagane preposte agli oracoli, e la relativa orazione, sono sostituiti dalle figure e dalle invocazioni dei santi cristiani (San Pietro, San Paolo, S. Antonio ecc.).
Nel 1926,anche Nicola Zingarelli ci parla, nell’ambito dell’opera Apulia fidelis, della pratica magica del setaccio nei nostri paesi:
“Ad Oria, in Terra d’Otranto, qualche iniziato sa anche alcuni misteriosi versetti per scovrire il ladro : ma la ciurmeria per riuscire nell’intento è piuttosto complicata. L’iniziato poggia uno staccio in equilibrio su di un perno piantato sopra un piano di legno, sul quale sono incisi alcuni segni cabalistici; e, recitando i suoi versetti, lo fa girare lentamente su se stesso fin che gli comanda di fermarsi. Nell’arresto dello staccio una punta addita uno dei segni sul piano; e da quella indicazione il veggente sa chi è il ladro, che però non rivela per nome, ma solo ne descrive qualche caratteristica, della statura, del colore dei capelli o degli occhi, dell’età, dello stato celibe, o maritale, o vedovile.”
Marcello Gaballo ci fa sapere, in un commento su un mio precedente articolo sullo stesso tema, apparso sulla rivista Fondazione Terra d’Otranto, che il rituale a Nardò si svolgeva in questo modo e con la seguente formula:
“farnaru, farnarieddhu, voletta volà, dimme lu giustu, dimme la verità. (Li sordi) l’ha pigghiati … (nome del sospettato)?”.
La conferma al sospetto veniva, come nelle altre varianti, se l’attrezzo si muoveva, e un altro particolare aggiunto dal Gaballo è che il rituale doveva “essere fatto di nascosto, e in presenza di due persone fidate poste ai lati di chi recitava la formula”.
Nel periodo della inquisizione, in tutta Italia si ritrovano processi in cui è menzionato l’uso divinatorio del setaccio o in cui addirittura questa forma di divinazione costituisce il principale capo d’accusa. Nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine sono conservati diversi atti inerenti processi in cui appare l’uso del setaccio, là chiamato “tamiso”: Processo per uso di cibi proibiti, bestemmie e per aver sperimentato il sortilegio del “tamiso” contro Giovanni Gastaldis da Buia, Sec. XVII (1659); Processo per il sortilegio del “tamiso” contro Aurora Brunelleschi abitante a Buttrio, Sec. XVII (1655) ; Processo per il sortilegio del “tamiso” contro Giacoma di Chions, Sec. XVI (1599). Anche nell’inquisizione veneta, si ritrovano processi e condanne per l’uso magico del setaccio, come nel caso di tal Frà Facondo (1705) che “aveva insegnato il sortilegio del tamiso (staccio) per trovare le cose perdute”.
Gianfranco Mele
BIBLIOGRAFIA
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Luca Cremonesi, la filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi Gilgamesh Edizioni, 2012
Pietro Aretino, Sei giornate, Ragionamento della Nanna e della Antonia, Giornata Terza, 1534
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Gianfranco Mele, Elementi di magia popolare nel mondo contadino del Salento e della Puglia, Cultura Salentina, 2015
Benvenuto Castellarin, I Processi dell’Inquisizione nella Bassa Friulana: 1568-1781, la Bassa Ed., 1997
Vincenzo Bellandi, Documenti e aneddoti di storia veneziana tratti dall’ archivi de’ frari, Firenze, Libraio Editore, 1902
Gianfranco Mele, Magia contadina: “lu sutazzu”. Una pratica divinatoria ancora in uso in alcune aree del Salento Fondazione Terra d’Otranto, 2018