L’olio prodotto, per la sua ricchezza non solo organolettica, è stato sempre paragonato al “nobile metallo”. «L’olio è l’oro dei poveri» diceva mio padre. Almeno fino a quando il prezzo di mercato non ha più retto sotto i duri colpi della «globalizzazione» e della cosiddetta «comunità economica europea». Perciò sapeva “riconoscerlo” e sapientemente sapeva produrlo. Poi sentenziava: «Nachiri si nasce, non si diventa.»
Chi erano i frantoiani o i nachiri? Partiamo dai sacri luoghi dove “vivevano” i nostri frantoiani. I luoghi dove venivano trasformate le olive in olio si chiamavano frantoi, volgarmente detti trappìti. Il frantoio era un luogo affascinante, paragonabile a un bastimento, a una specie di nave mercantile sulla quale stava la ciurma, una squadra di persone, detti frantoiani. Uomini duri che lavoravano duramente. Ognuno di loro aveva un compito ben preciso. Le loro mansioni, cronometriche e impegnative, che venivano svolte come un orologio, quasi sempre raggiungevano lo scopo prefissato. Il loro capo squadra si chiamava «nachiro» (dal greco naùkleros, padrone della nave). Mio padre era uno di loro. Negli anni Settanta, insieme ad un gruppo di “colleghi” produttori di olive, aveva dato vita ad una cooperativa agricola, la cui sede era in un frantoio situato nel cuore del mio paese. Le olive raccolte quotidianamente venivano scaricate e quindi macinate nelle vasche di “pietra viva” di quel vecchio frantoio. La “pasta” ricavata dalle olive frantumate veniva infilata nei fìsculi (fiscoli) e dunque sistemati sotto la pressa. Dopo una prima pressione, si invertiva l’ordine dei fìsculi, quello di sopra passava sotto e così via, fino a ottenere una nuova pressione per fare uscire l’acqua di vegetazione (sentina) e l’olio di oliva. L’olio ottenuto veniva sottoposto ad accurata “analisi” per misurare il “grado di acidità”. Quanto più basso era il grado, tanto più l’olio era buono e, quindi, di alto prezzo. L’odore dell’olio e la “puzza” della sentina saliva nell’aria fino ad avvolgere l’intero paese. Avverto ancora quel piacevole olezzo impresso sulla giacca di mio padre frantoiano o, per meglio dire, di mio padre nachìru.
Tonino Filomena