Nel mezzo del cammino si approda sempre a Dante. Dante il pagano. Dante il divino. Il divino è già dentro il celestiale. Spesso si dimentica che Dante è il paradosso degli equivoci della sua epoca. Quando il celestiale sopraggiunge è perché non riconosce più la sua epoca come Terra di porto e di sale, ma una imbarazzante strategia di luoghi non della saggezza ma dei poteri. Il Dante dei poteri perduti. Il Dante che ritrova l’incipit dell’oblio per andare oltre, oltre la lingua, oltre la monarchia, oltre la teologia costruita per esercitare quel potere cercato che lo condurrà per mera leggerezza ad un esilio d’anima e di corpo. Il tempo del divino non dovrebbe mai essere il tempo di una commedia. Vi sono spazi di eternità che di contraddicono a primo sguardo. Nella seconda attenzione le contraddizioni cominciano ad affievolirsi per diventare vane nella terza attenzione.
Ogni attenzione può essere una stanza. O soltanto la metafora di uno spazio che cerca un dialogante duetto con il tempo. È ciò che ho sempre vissuto leggendo, rileggendo e ritornando più volte sia su Dante Alighieri nella sua storia di uomo e poeta, filosofo e intellettuale sia rileggendo la sua “Commedia”. Mi sono chiesto se al concetto – argomento della Commedia il “popolare” Boccaccio ha pensato di aggiungere il termine sublime, sacro e pagano, di “divina” deve pur esserci una motivazione forte. Non è per il fatto che Beatrice è considerata donna divina nella tragi – commedia dell’esilio?
Ma è qui che mi son dovuto ricredere. Boccaccio ha ragione perché quando una commedia diventa divina si entra nell’incastro metafisico della scena, che non è più un retroscena bensì una vera e propria ribalta. Mi sono detto: Capito? Certo, Boccaccio mi ha fatto capire il viaggio di Dante. E in questo prezioso camminamento ci sono tutti gli elementi del Nove. Ovvero quegli elementi che provano, sia metaforicamente che sul piano ontologico, perché la Commedia è Divina. Perché il sacro ha il sopravvento sul vuoto. Il sacro è il simbolo beatificante di Beatrice che “divinamente” consola il tragico dante ovidiano dell’esilio.
Il sacro ha il privilegio, in Dante, di essere il sopravvento della visione astratta. È Visone che permette la trasformazione dell’astratto in superamento dell’empirico in interpretazione escatologica. Beatrice stessa è escatologia della infinitezza verso un orizzonte in cui il Cielo incontra l’Umano ma resta Cielo. Anche l’esilio, maledettamente malinconico e umanamente nostalgico, ha il rumore di una esistenza aggrappata agli archetipi del destino.
Il numero Nove non è mai una attrazione. È il simbolico che ci cammina dentro e ci respira nelle parole compreso nei silenzi. È un incastro tra le tre cantiche. Cominciare da Paolo e Francesca e finire con il dialogante specchio tra Maria e la presenza della grazia come spiritualità nella profondità di un Paradiso che è Luce significa apostrofare il senso del tempo e quello dello spazio negli orizzonti di un infinito che è manifestazione di Fede.
La figura di Beatrice è l’immagine e l’immaginario in una onnipotenza universale che è un “chiaro di bosco”, come direbbe Maria Zambrano. Il percorso diventa così un Viaggio alla ricerca del Divino. Un Divino che si manifesta come dono celeste, dono del Cielo, appunto. Dono con il quale si è confrontato certamente Boccaccio ma soprattutto il simbolico Pound.
Il divino nella Commedia definisce un progetto che diventa la trasparenza dantesca lungo il filo di una intera esistenza. Non si legge e non si studia Dante solo per diletto. Ma per molto altro. Per attraversare, appunto, quell’esistenza che è il compimento della divina nascita in rinascita esistenziale e, chiaramente, metafisica. La teologia non tocca questi saldi principì. Infatti, Beatrice non è teologia, ma mistero e archetipo. Forse anche il nostro individuale Mistero.
Abbiamo bisogno, alla fine delle vite, di pensare e credere, fortemente, alle santità per superare la mortalità e rendere il materiale in ontologia dell’anima. Con l’anima Dante è entrato in conflitto. Non l’ha vinta. È stato vinto dal terreno. L’esilio è il terreno. La Grazia è il divino. Il terribile esilio ha vinto il “divino” Dante. Beatrice non lo ha salvato dalla mortalità. Pur restando Grazia e archetipo in Dante l’esilio è stato tragedia. Questo però lo ha reso più umano. Dall’umano, però, si risale al troppo umano e si supera il bene e il male. In fondo Dante fa in modo di oltrepassare il fiume del male riconoscendo il bene. Questo è il mezzo del cammino che ci porta sempre oltre. Così nel mio libro “Nel mezzo del cammin. Oltre Dante”, con contributi di Stefania Romito e immagini originali, Passerino editore.
Pierfranco Bruni