È tempo di ripensare la politica culturale dell’Italia soprattutto in un tempo di nuove stagioni organizzative. È un primo inciso sulla riconsiderazione del patrimonio culturale sulla quale occorre impostare una visione politica delle culture. È da anni che si discute di guardare con molta attenzione ad una economia delle culture non sono su riferimenti produttivi ma di apprendimento e di tutela valorizzante. L’antica distinzione tra tutela e fruizione, passando attraverso la valorizzazione e quindi la salvaguardia, andrebbe riletta in merito anche al Codice dei beni culturali del 2005 e le molte successive modifiche e aggiornamenti.
C’è di più e di altro direi. Si dia una progettualità organica alla cultura attraverso una forza di competenze appropriate sia ai beni culturali che alla scuola. Si sburicratrizzi il Ministero della cultura con una proficua managerialità culturale e si superi l’amministrazione delle dirigenze scolastiche. L’ex preside o l’attuale dirigente scolastico abbia capacità amministrative e di indirizzo e si crei un manager culturale affinché le scuole siano reale laboratorio culturale con intese europee e internazionali sulle culture.
Occorrono personalità di cultura che vadano oltre l’amministrare la scuola sul piano didattico – metodologico. Il campo dei beni culturali è abbastanzanza variegato a cominciare dalle soprintendenze regionali e territoriali. Occorre incidere su questi settori se si vuole creare realmente una rete di saperi competitivi. Ma occorrono esperti. Qui è il punto. Si pone una questione ormai che riguarda quelle responsabilità culturali ad ampio raggio e non solo gestionali dell’amministrare la burocrazia culturale attuale.
Se il bene culturale è espressione anche di identità storica di un territorio non bisogna divergere da una scuola che sia conoscenza delle discipline applicate alla storia delle identità. Su tre elementi antichi va puntato l’osservatorio: competenze, conoscenze, esperienze. Tre parametri fondamentali per dare un assetto nuovo, moderno e lungimirante a scuola e ai beni culturali e ambientale in una stretta simbiosi come era nello spirito nascente del Ministero dei beni culturali con la organizzazione voluta nel 1975 da Giovanni Spadoni.
Bisognerebbe partire dalla attuale situazione. Dalla volontà di aver reso la cultura dimensione dello spettacolo attraverso la valorizzazione del cinema e del cosiddetto spettacolo dal vivo. Ma occorre necessariamente riprendere la salvaguardia valorizzante di tre riferimenti chiave della identità culturale, ovvero dalla archeologia-arte-antropologia, dalle biblioteche e dalle aree di rete territoriali di queste strutture, dagli archivi come modelli di ricerca della documentazione. Tre coordinate con le quali anche la cultura scolastica deve fortificarsi. Sono modelli della classicità e delle innovazioni senza trascurare, chiaramente, la realtà dello Spettacolo, nella complessità delle diverse diramazioni.
Occorre ricontrstializzare il ruolo delle soprintendenze per il compito che hanno svolto e che dovrebbero sviluppare. Accanto a queste va riconsiderato il ruolo dei musei pur nella loro autonomia. Così va fortificato lo snodo delle biblioteche nelle suddivisioni dei comparti insieme agli archivi statali sia territoriale che centrale attraverso una progettualità che non può essere suddivisa per aree. Ormai non ha più senso che le strutture abbiano in molte occasioni ruoli competitivi.
L’articolazione è necessaria ma la sintesi è significativa per non creare divisioni tra i beni culturali. È chiaro che tutto deve diventare un collante, comprese le aree archeologiche, all’interno delle geografie del territorio. Ma per avvisarci verso questo antico aspetto nella innovazione bisogna fare delle distinzioni. Un fatto è la programmazione culturale. Un altro è pensare ai beni culturali. È chiaro che l’empatia è fondamentale ma l’asse politico deve saper guardare alla cultura con tre presupposti:
1. L’identità territoriale e la salvaguardia.
2. L’immagine, la valorizzazione e la fruizione.
3. L’innovazione sul piano investimenti, risorse, economia.
Ma i beni culturali passano attraverso la conoscenza e l’apprendimento e proprio per questo il compito della scuola può diventare un riferimento con compiti di educazione alla scientificità, non solo didatticità, del bene culturale. Alcune scuole già svolgono questo ruolo. Bisogna rendere ciò decratizzabile.
Per fare tutto questo però c’è una urgenza impellente che è quella della assunzione del personale. Molte strutture dei beni culturali corrono il rischio, nel corso di un anno, di restare senza personale specializzato: dai bibliotecari agli antropologi, dagli archeologi agli storici dell’arte. Ma si tratta di compiere un’operazione urgente se non si vuol far chiudere strutture nazionali. Incentivare il cinema italiano e il teatro è una chiave da non dimenticare mai, comunque. Si tratta di una cultura e tradizione culturale che diventano beni di un patrimonio identitario dei beni culturali.
Nel corso di questi anni avremmo dovuto assumere e non trasformare le strutture o inventare nuove soprintendenze senza personale specifico. È un dato che può essere recuperato e ricontestualizzare i modelli delle istituzioni periferiche partendo, appunto, dalla prima versione del Codice dei beni culturali o dal Testo Unico dei beni culturali. Insisto sul fatto che ormai il raccordo tra cultura, come attività e programmazione, beni culturali e scuola devono raccondarsi su piano non gestionale ma pedagogico e scientifico.
Questo, come dicevo, è soltanto un primo inciso di meditazione sul quale occorre riflettere per una nuova politica culturale. Insomma guardo con attenzione ai beni culturali, ripensandoli politicamente, con una programmazione articolata ed empatica coinvolgendo la scuola direttamente, partendo sempre da un antico presupposto che è questo: il suicidio della politica passa attraverso l’omicidio della cultura. Allora. Si faccia attenzione al rapporto tra politica e cultura.