Attingendo alla inesauribile miniera delle lettere che Van Gogh scrisse al fratello Theo possiamo tentare di delineare la concezione che l’artista olandese aveva per l’arte e, dunque, per la stessa vita, in quanto esse sono strettamente e indissolubilmente legate. Van Gogh riteneva che il pittore dovesse avere una profonda comunione con la natura e dedicarsi ad essa completamente, perché attraverso l’esperienza diretta, il contatto continuo con gli elementi naturali avrebbe portato ad una specie di simbiosi con la stessa natura ed al fiorire di opere artistiche appartenenti ad essa. «E’ dovere del pittore essere completamente preso dalla natura e usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per esprimere ciò che sente, di modo che la sua opera possa divenire intellegibile agli altri(…).
Non è il linguaggio dei pittori, ma quello della natura che bisogna ascoltare». Con questa dichiarazione Vincent Van Gogh sembra sintetizzare una intera vita artistica, una vera e propria scelta di stile. Ma, per guardare bene la natura occorre avere la giusta sensibilità, perché un uomo, pur avendo tutti i sensi perfettamente sani, può non vedere la natura, non sentirla nel modo giusto. In altre parole, senza sensibilità artistica non puoi cogliere la poesia della natura e il linguaggio dei campi, che Van Gogh ricerca incessantemente. Inoltre, condizione imprescindibile per una vera crescita artistica, è non solo amare la natura, ma disegnarla dal vivo. E’ evidente qui come la pittura che si sposa con la vita sedentaria, facendo ricorso alla fantasia o alla sola memoria, risulta per Van Gogh essere legnosa, insulsa a leggersi. Egli naturalmente è ben cosciente, che un pittore deve essere innanzitutto un buon artigiano: «L’arte richiede un lavoro persistente, lavoro malgrado tutto e osservanza continua…» leggiamo nel ricco epistolario al fratello Theo «Il senso artistico si sviluppa e matura col lavoro». E ancora: «Bisogna lavorare a lungo e duramente per afferrarne l’essenza». L’artista olandese era attratto dalla condizione dei contadini, dei tessitori, dei minatori con i quali viveva a stretto contatto e, attraverso la pittura e il disegno, intese raccontarne la silenziosa e dignitosa sofferenza, evidenziandone lo stoicismo e la capacità di sopportazione, quasi un percorso di espiazione. In questo senso, Van Gogh può essere considerato pittore sociale, poiché attraverso la pittura denunciò la condizione misera delle classi più deboli, su cui molti sorvolano e che molti dimenticano. Egli stesso del resto scelse deliberatamente di vivere in semplicità, povero tra i poveri: «E’ vero che spesso mi trovo nello stato più miserando, ma resta sempre un’armonia calma e pura, una musica dentro di me. Vedo disegni e dipinti nelle capanne più povere, nell’angolo più lurido. E’ la mente è attratta da questa cose come da una forza irresistibile».
Nella concezione di Van Gogh l’arte è richiede una dedizione completa, che diventa scelta di vita radicale: il non darsi i limiti di un lavoro ordinario va inteso proprio nella volontà dell’artista di potersi svincolare dagli obblighi sociali e di dedicarsi completamente alla pittura, un proposito che poté realizzare grazie al supporto economico di Theo, che aveva compreso quale grande artista fosse il fratello, un sodalizio umano e culturale che si è rivelato di enorme portata. Non si era immedesimato nella natura, aveva immedesimato la natura in sé; l’aveva costretta a piegarsi, a modellarsi secondo le forme del suo pensiero, a seguirlo nelle sue impennate di stile. E ogni cosa, sotto il pennello di questo creatore bizzarro e poderoso, si anima di una vita misteriosa, indipendente dalla cosa stessa che egli dipinge, che è in lui e che è lui. Egli si svuota completamente, a vantaggio degli alberi, dei cicli, dei fiori, dei campi. Un campo a maggese, un viale di grandi alberi che si stagliano contro il cielo della sera, un sentiero incassato con pini contorti, un pezzo di giardino con il retro di una casa, carretti di contadini trainati da cavalli magri su un pascolo, un bacile di rame e una brocca, alcuni contadini seduti intorno a un tavolo, intenti a mangiare patate: a che serve descrivere tutto questo? Un turchino intenso, inverosimile, che ritorna di continuo, un verde di smeraldo fuso, un giallo che da sull’arancione. Ma, che cosa sono i colori, se non rivelano la vita intima degli oggetti? Questa vita era lì: l’albero, la pietra, il muro, il sentiero incassato davano all’artista ciò che avevano di più segreto. Andando da quadro all’altro si percepisce ciò che li unisce tutti, la vita intima che si schiude nel colore e nei rapporti dei colori fra loro.
Van Gogh ha preparato trent’anni di pittura; quel che presentiva, s’è avverato. Partito dall’Impressionismo, intesa la lezione dell’Oriente per l’impiego dell’arabesco disegnativo e delle preziosità coloristiche, egli si riallaccia al movimento romantico, ma lo supera per l’esasperata intensità della visione. Egli non rompe i ponti con il Naturalismo, ma va oltre; le sue magnifiche allucinazioni, che non preludono in nessun modo e in nessun momento all’arte astratta, aprono la via all’Espressionismo. Egli ne è il fondatore primo o, come dicono alcuni, il maggior colpevole. La sua pennellata che non profila, ma evidenzia un elemento-forza del soggetto; questo suo colore abbagliante, tutto sole, che conosce ombre, quasi solo, nelle rughe delle pennellate. E tutto ciò avrà una influenza grande sui pittori della generazione seguente. Van Gogh arriva in tempo per assestare gli ultimi colpi all’edonismo impressionista. In questa funzione di liquidatore, ha la stessa importanza e determinatezza di Cézanne. Due strade opposte: quella di Cézanne, che risponde a un’idea statica e spaziale della natura, condurrà la pittura a esprimersi per volumi, a costo magari di un eccesso di geometria, e sarà un’espressione che interesserà da vicino, vent’anni dopo, i cubisti; quella di Van Gogh condurrà, invece, la pittura ad esaltarsi nel suo stesso colore, nel tentativo di esprimere, arbitrariamente, ma con più intensità, uno stato d’animo, un riflesso emotivo della natura, e sarà un percorso che interesserà i ‘Fauves‘ e gli Espressionisti.
La massima intensità, il suo più alto splendore lo raggiunse quando, come nei famosi Girasoli, il colore sembra stendersi uniforme come una pasta ancor pura dentro il tubetto. Van Gogh aveva troppa fede, da troppo tempo, in quell’alfabeto cromatico che aveva in mente fino da Nuenen; troppa fede nella purezza materiale dei colori e quest’oro di Van Gogh è, però, opaco splendore, più vicino alla decorazione, che al rapimento. I gialli di Van Gogh, hanno costituito una favola della pittura contemporanea al suo nascere, ma ancora troppo legata al rigore formale. Forse nessun altro occhio di pittore s’è consumato, come il suo, ad interrogare ogni forma, ogni colore, ogni vibrazione di luce. Non si è mai lasciato assorbire dalla natura, semmai l’ha assorbita in sé, componendola secondo le cadenze del suo sogno e le illuminazioni della sua fantasia. Non è riuscito a dimenticarsi di sé. Ha rapito, ma non lo è mai stato davvero del tutto. La maggior gloria dell’estate di Arles resta la violenza dell’invenzione cromatica; eppure, nemmeno per questa parte il nostro appagamento è pieno: quei colori sono stesi troppo densamente, troppo ciecamente, perché brillino di vero splendore. Van Gogh non toccò mai quella vivente stratosfera dei sensi; fu colorista inedito, è certo, ma non quel “colorista non mai veduto” di cui sognava e, con eroica umiltà, si rassegnò ad essere l’affaticato e temerario annunciatore di quel sapiente rapporto, per cui un colore luccica veramente sul bianco della tela, illuminandola dall’interno che fu invenzione dei ‘fauves’, di Matisse anzitutto. Tuttavia, non si ammirerà mai abbastanza la coscienza deliberata, umile ed esaltata ad un tempo, con cui Van Gogh affrontò la sua impresa e i suoi maggiori successi, in questo senso, furono raggiunti a forza di lavoro.
Alessandra Basile
Parigi, intorno al 1840.
Studio fotografico Niepce e Daguerre.
Una invenzione scuote il modo di interpretare l’arte, rivoluzionando anche il modo di dipingere.
Inquadratura, movimento e luce non sono più appannaggio di una sola espressione artistica. Il cambiamento non è solo nel modo di percepire e tradurre il lavoro.
Muta anche l’ispirazione, e la tecnica non può non risentirne.
L’atto artistico può scostarsi dalla linea di riproduzione di immagini oggettive. Poiché l’oggettività, fredda, nel rilievo del reale è ora affidato alla macchina fotografica.
Parigi, intorno al 1890.
Studio di pittura Degas.
Il pittore impressionista riceve una ballerina nel suo studio e la fotografa in diverse pose. Ne risultano tre lastre che l’artista in seguito usa per realizzare diversi quadri.
Mesi dopo Degas combina le tre immagini componendo, quasi come in ricalco, il celebre dipinto “Ballerine in blu o ballerine dietro le quinte”.
Toulouse Lautrec, Monet e Gauguin percorrono la stessa strada. gli Impressionisti, infatti, in un’atmosfera che non prevede barriere tra le arti, dialogano con la fotografia, trovando spesso nella nuova invenzione spunto per le loro realizzazioni.
La diffusione della riproduzione ottica della realtà, garantita dalla chimica, quella fusione che Arrigo Boito eleva ad un mistico incontro tra “il raggio ed un veleno”, cambia radicalmente la pittura; la sua avanzata inesorabile, inizialmente, è un evento traumatico per il mondo dell’arte, obbligata a prendere atto delle nuove acquisizioni tecnologiche per intraprendere strade nuove nel campo della rappresentazione.
Ma la fotografia non contrasta, anzi, stimola; e nei primi decenni dalla sua nascita, occupati da una ricerca dello sviluppo tecnologico del mezzo, piuttosto che sul lato della creatività, ha un proprio campo di azione con il quale non può esistere competizione. Ma inizia anche a guardarsi intorno, tra le arti, in cerca di quella da cui, prima di tutte, può esserne attratta.
Vincent Van Gogh non è estraneo, in alcuni casi, all’uso della fotografia per il proprio lavoro. D’altronde, la voce che gira, l’aiuto che la neonata scienza può garantire al pennello è davvero meritevole di attenzione. Tanto più che la mera rappresentazione, unita alla mancanza del colore, consente comunque di proseguire secondo la strada della tradizione, garantendo l’opportunità di mettere in luce il lato interpretativo del mondo, con l’aumento della sintesi ottica; ripropone modalità percettive più intime, che si basano su emozioni amplificate dalla percezione del mondo, e per questo spostata completamente su differenti piani di attenzione.
Alcuni ritratti del pittore seguono così questo desiderio di fiducia in tecniche nuove, come il ritratto della madre dell’artista e del pittore belga Eugène Boch, dimostrazioni palesi del colloquio tra stampa fotografica ed opera pittorica.
Il ricorrere ad essa per un rilievo sommario di linee, si arricchisce poi, nella fase di stesura del quadro, di un potenziamento delle linee fisiognomiche, necessario per esaltare quell’aspetto interpretativo fondamentale, quella lettura dei moti dell’anima che pare più intensa nel ritratto pittorico. E la netta biforcazione dei due percorsi iconografici è tanto più audace ed evidente, quanto maggiore è la sensibilità emotiva dell’artista, disposto a staccarsi dalla capacità rappresentativa dello strumento fotografico.
Alla fine, dunque, la fotografia si trova ad assumere un doppio ruolo: sistema di riproduzione grafica stilisticamente priva di creatività, sulla scia della “teoria dello strumento”, e trampolino verso la potenza interpretativa che segnala e fa splendere il vero palpito artistico.
Oggi, si discorre del contrario, del cosiddetto “pittoricismo”, o “pittorialismo” in fotografia, un percorso storico e artistico davvero interessante, flagellato ogni volta che un “sembra un Caravaggio” prende vita sui commenti dei social.
Ma è un’altra storia…. To be continued.
Domenico Semeraro