martedì 24 Dicembre, 2024 - 18:15:05

Perché la famiglia dei Bruni Gaudinieri ha fatto la storia nella cultura del Regno di Napoli

Micol e Pierfranco Bruni hanno redatto con gusto eppure con partecipazione sofferta la storia della loro famiglia, e per Pierfranco si è trattato di completare la propria vocazione di scrittore che manifesta piena dedizione al sentimento di appartenenza ad una storia affettiva che lo comprende e lo inserisce in un vissuto collettivo e che, come lui stesso rivela con queste pagine, lo travolge e lo trascina. Lo confessa l’autore stesso: «Siamo fatti delle nostre madri, dei nostri padri e di paesi che hanno un unico paese»(p. 61).

La sua scrittura insegue la vita vera e traccia sulla carta solo quello che già si è rivelato ai suoi occhi e alla sua anima, persino strappando nello stile letterario il percorso, talvolta fluente, talvolta interrotto cui la vita costringe le esistenze.

Cinque fratelli (Pellegrini editore)è di fatto la rivelazione del suo percorso spirituale, e spontaneamente chi legge può avere l’impressione che egli abbia avuto il bisogno di scrivere la sua personalissima biografia collettiva (come il riferimento al sangue arbresh, ricorrente già dalla nonna fino alla sua sposa) in prosa, non in versi – benché segnata da una vena spesso poeticamente ispirata – incrociando Oriente ed Occidente: «Verrà un giorno che tutto trasformerà la cronaca in storia. E la storia ha sempre un senso. Non so però se il sole tramonta nell’alba tra l’Oriente e l’Occidente. Ma i Bruni-Gaudinieri sono Occidente e Oriente» (pp. 76-77).

Con l’immediatezza dello stile che nasce da sentimenti forti e profondi, come accade quando si mette allo scoperto se stesso e quanto di più personale ed intimo si viva, la sua divina commedia non ha esitazioni nello svelare il percorso di fede (o piuttosto di religiosità e di devozione popolare, come precisa) il quale – egli sostiene – ha guidato la trama profonda di una esperienza collettiva che solo con la sua personale maturità svela forse i segni profondi anche nella intensa, gioiosa realizzazione di sé che il libro del cercatore di conchiglie (p. 54) – come egli stesso si definisce – rivela.

Chi conosce Pierfranco Bruni ne apprezza la serenità, il candore vigile, la disponibilità verso tutti, ma, leggendo questo libro, comprende finalmente che questo suo comportamento non è riconducibile semplicemente a predisposizione caratteriale, ma risulta la manifestazione di una intensa vita di fede cristiana e della pace che la sola aspirazione alla salvezza riesca a donare.

Questo è tanto più vero comprendendo il peso che Bruni assegna al destino (<<la vita è intrecciata al destino e il destino è una vita tra le maglie delle vite personali. A raccontare una storia non è la stessa avventura dei destin», p. 71), itinerario percorso all’interno di un grande disegno che non è nella disponibilità degli esseri umani, ma misteriosa trama che attraversa la storia e la sovrasta, tanto che persino la numerologia – riferimento che percorre l’intero libro – acquista un significato non puramente magico o sconfinante nella mera superstizione. I numeri rinviano alla presenza importante dello «zio Mariano» e alla sua influenza che testimonia la fecondità dell’incontro tra le «due culture», umanistica e scientifica (pp. 167-170).

Proprio come coloro che hanno scoperto un tesoro – ma non uno di quei tesori che si nascondono e si custodiscono con egoismo per poterseli godere da soli – Pierfranco Bruni sente il bisogno di comunicare la sua scoperta a tutti: quello che oggi egli è non è spiegabile con una sola esistenza, ma invece con quella dell’organismo collettivo che continua a pulsare nella sua vita.

Persino il libro non è opera singolare, ma firmata come frutto di una riflessione comune a Micol, con la quale disputa sulla narrazione storiografica che deve essere chiamata a sostenere anche la credibilità della memoria personale:

«La storia che vive nel tempo attraverso la cifra dei documenti, ma la memoria , a volte, è più forte degli stessi documenti, di ciò che mia figlia chiama le fonti e sulle quali si basa, secondo lei, assillandomi a volte, tutta la dimensione della storia» (p. 78), come mostra il capitolo dedicato al Regno di Napoli ed al cattolicesimo borbonico dei Guaglianone imparentati con i Gaudinieri (pp. 85 e ss.), e successivamente il«patto politico e di fede con il Fascismo» della famiglia Bruni (pp. 90 e ss.).

Le pagine di Cinque fratelli sono scorrevoli e si leggono con crescente interesse, e dunque non si deve rischiare di deformare il gusto della lettura con una petulante e barbosa analisi del testo. Dirò soltanto che – pur parlando di vita e di morte, sacrifici e distacchi, partenze ed abbandoni, ritorni e rimpianti – si coglie nel libro la presenza di un mondo pacificato, non perverso o ostile come quello che ci accade di conoscere giorno per giorno, anzi, se ci si affida agli occhi di Pierfranco e Micol, si vede un mondo valutato con benevolenza, pieno di bei gesti nascosti, con la simpatia di chi vorrebbe tutti benevoli e santificati, anche se non nasconde per nulla che si avverte il peso del male e l’esistenza del peccato.

Di fronte al destino umano, anche la ricostruzione della secolare imprenditorialità piccolo-borghese che si impegna per più generazioni nell’attività agricola e soprattutto commerciale fino a sviluppare una precisa e sicura professionalità (pp. 109 e ss.), intrecciandosi con la storia economica del territorio, assume comunque un peso relativo e non definitivo, perché essa viene riassorbita dal desiderio dell’Essenziale, attraverso l’impegno costante, benché non affannoso, ad essere coerenti con se stessi, conservando la fiducia nell’essere umano e nella sua ricerca di Dio.

Pierfranco compie il suo cammino nell’esperienza della vita attraversata dalla morte dei membri di questo soggetto collettivo che la famiglia incarna, proprio come le tartarughe trovate da Micol, che la morte rende immobili (pp. 126-129), metafora che spinge a valutare le infinite ragioni per vivere ed apprezzare la vita. Così il libro-confessione del «cercatore di conchiglie» può terminare, restando in ascolto dei <<rumori di altre città custodite in quel cavo di conchiglia che ho sempre custodito osservando la palma del mio giardino agitarsi nel vento delle stagioni» (pp. 185-186).

Giuseppe Acocella
Università degli Studi Napoli

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