Venerdì sera l’annuncio: la Web tax è stata approvata in commissione Bilancio della Camera. Nelle ultime ore le reazioni, fra le quali quella, molto attesa, di Matteo Renzi. Il neo segretario del Partito democratico ha bocciato senza mezzi termini la settimana di fuoco della Rete, fra regolamento Agcom, emendamento per tassare le Web company, aumento dell’equo compenso dovuto alla Siae sui dispositivi elettronici e obblighi legati all’aggregazione e all’indicizzazione delle notizie. “Siamo passati dalla nuova digitale alla nuvola nera di Fantozzi”, ha dichiarato Renzi: I temi “della Web tax vanno posti in Europa”, altrimenti “rischiamo di dare l’immagine di un paese che rifiuta l’innovazione”.
Decisa stoccata al testo firmato comunque da uno dei suoi (Edoardo Fanucci) e fortemente sostenuto da Francesco Boccia e all’emendamento di Stefania Covello è arrivata anche dalle pagine di Forbes, a firma di Tim Worstall: “L’Italia ha fatto il passo successivo verso la trasformazione della quasi certamente illegale Google tax (altro termine con cui viene definito giornalisticamente l’emendamento, nda)”. Secondo Simone Crolla, consigliere delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy, “gli ispiratori della Web tax dovrebbero riflettere sul danno di immagine per l’Italia provocato da questo provvedimento agli occhi della comunità internazionale. […] È il tentativo di assoggettare le aziende digitali estere alle normative fiscali italiane, provocando un danno sia produttori che ai consumatori”.
Forza Italia chiede al Governo per voce, anzi per cinguettio, di Antonio Palmieri di “cancellare la norma nel maxiemendamento con cui chiederà la fiducia sulla Legge Stabilità”. L’unico intervento che potrebbe bloccarne il percorso in direzione della conversione in legge. Nel coro dei no anche il deputato del Pd Marco Meloni che ha auspicato un intervento del Parlamento: “Torni sulla decisione della commissione bilancio”. Il presidente di Confindustria Digitale Stefano Parisi si appella al “Commissario Straordinario per l’Agenda digitale, Francesco Caio” e ritiene che si dovrebbe “fare esattamente il contrario di quanto prevede la Web tax, si doveva favorire sul piano fiscale le piattaforme europee, non penalizzare quelle Usa”. Boccia, da parte sua, non intende cedere: “Il dibattito di queste ore dimostra una preoccupante subalternità economica e culturale alle multinazionali americane del Web”.
Dalle Web company straniere, destinatarie del provvedimento in questione, nessun commento. Wired ha contattato le filiali italiane di Google e Amazon e la risposta è identica: “Sulle tasse la nostra posizione è sempre la stessa. Le paghiamo rispettando le leggi di ogni singolo paese”. Come dire, per ora, se così sarà in qualche modo ci adegueremo alla situazione. Ma non è così semplice. Ad andarci di mezzo se il testo dovesse concludere immutato il suo percorso verso la Gazzetta Ufficiale non sarebbero le casse di Mountain View, Seattle, Facebook o Twitter, ma l’intera economia digitale italiana. Vediamo, per punti, perché.
L’Europa
La Web tax ci pone in una posizione delicata nei confronti dell’Unione europea, che nel 2015 prenderà posizione sul tema. Con l’Italia al timone del semestre europeo dall’estate 2014. Il rischio concreto è quello di subire una procedura di infrazione, e annessa e connessa multa, per essere andati contro l’attuale regolamentazione comunitaria: “Le persone che esercitano attività indipendenti e i professionisti o le persone giuridiche che operano legalmente in uno Stato membro possono esercitare un’attività economica in un altro Stato membro su base stabile e continuativa od offrire e fornire i loro servizi in altri Stati membri su base temporanea pur restando nel loro paese d’origine. Ciò presuppone non soltanto l’abolizione di ogni discriminazione basata sulla nazionalità ma anche, al fine di poter veramente usufruire di tale libertà, l’adozione di misure volte a facilitarne l’esercizio, compresa l’armonizzazione delle norme nazionali di accesso o il loro riconoscimento reciproco”. Obbligare un colosso californiano con sede in Irlanda o un singolo libero professionista ad aprire sede e partita Iva in Italia per vendere pubblicità o servizi legati all’e-commerce, questo chiede la Web tax, vuol dire guardare apertamente in un’altra direzione. La matassa, da qui al prossimo anno, andrà sbrogliata a livello europeo e non frammentata tra un confine e l’altro.
Le imprese italiane
“È una botta per le imprese che fanno esportazione”, spiega a Wired Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente della Bocconi: “Boccia dimostra dimostra di non saper distinguere un server da uno scaldabagno: tutti e due hanno la luce rossa, ma non sono la stessa cosa”. “Se chi vende pubblicità online, da Google a un sito asiatico specializzato su cui un’azienda italiana di macchinari deve acquistare uno spazio, dovesse decidere di non farlo più in Italia per non sottostare agli obblighi della Web tax, onerosi soprattutto per chi raccoglie poche decine di migliaia di euro dagli investitori del nostro paese, saremmo tagliati fuori dal flusso pubblicitario globale“. “Non solo”, prosegue Carnevale Maffé, “oltre all’impossibilità di importare pubblicità bisogna considerare il rischio di ritorsioni da parte degli altri stati, che potrebbero costringere tutte le piccole imprese italiane che esportano via e-commerce ad aprire sedi in altri paesi del mondo”. Ogni esportatore italiano potrebbe quindi doversi confrontare con la difficoltà di trovare piattaforme per acquistare pubblicità nelle zone di suo interesse ed essere obbligato a insediarsi nei paesi in cui propone il suo prodotto o servizio. “Per racimolare poche decine di milioni di euro di tasse si causerebbero danni enormi alle imprese“, afferma il docente della Bocconi.
I (pochi) soldi
La prima cifra citata da Carnevale Maffé è relativa al contributo della Web tax alle casse nostrane. Ed è ben diversa dal miliardo e mezzo di euro all’anno ipotizzato da Boccia. La variabile qual è? “Il valore aggiunto, su cui calcolare le tasse, del servizio erogato che nel caso della pubblicità online risiede nel paese d’origine (i server, gli algoritmi, le piattaforme sw, ecc, nda) e non in quello di destinazione”, spiega il docente. “In Italia ci sono diverse stime sul’introito della pubblicità digitale, si va da 700-800 milioni a poco più di un miliardo: come fa l’introito fiscale sui siti stranieri a superare il fatturato lordo dell’intero settore?”, si chiede.
L’e-commerce
Oltre a intervenire sulla vendita della pubblicità online la Web tax mette un piede anche nel commercio elettronico. Per ora gli scambi coinvolti, con il solito obbligo di presentarsi in Italia con una partita Iva tricolore, sono quelli fra aziende e soggetti in possesso di una partita Iva. Chi acquista un file musicale o un libro in Rete non ha di che preoccuparsi, per ora. Come spiega a Wired.it il giurista esperto di digitale Guido Scorza, però, “visto il principio sostenuto da Boccia è lecito aspettarsi un’estensione in quella direzione”. Per una paese in cui l’incidenza dell’e-commerce sul totale degli acquisti è ancora ferma al 3%, a fronte del 12% britannico per esempio, sarebbe una mazzata non da poco.
In conclusione, il problema non è il cosa – la delicata questione del trattamento fiscale dalle aziende che operano sul Web – ma il come – con un approccio ancora una volta grossolano alla materia – che rischia di condannarci a uno stop forzato nella già impegnativa (rin)corsa digitale.
Martina Pennisi su wired.it
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