ROMA – A chiederti se gli orizzonti hanno tramonti o albe nei tuoi occhi è come chiedere ad una farfalla di restare nel sonno dei suoi attimi, dimenticando il volo, su un petalo di rosa. Non si può. Lo so che è impossibile fermare il vento di una farfalla e l’immagine che fotografa le sue pause è soltanto il piacere di una danza che tocca i labirinti del cuore.
Non ti chiederò. Non ti chiederò sino a che punto tu possa vivere gli orizzonti e fin dove è possibile catturare i colori dei tramonti. Ti restano dentro sino a quando il mistero non si vestirà di passaggi.
Quanti passaggi nei nostri anni incerti hanno segnato il cammino.
Tu resti una danzatrice araba che ha le parole della malinconia e danzi nel cerchio magico sino a resistere alle attese. Io sono un poeta sconfitto che non smette di raccogliere storie e trasformarle in metafore.
Se i nostri incontri saranno una dissolvenza del nostro amore, non potrò sollevare alcuna alba per riportarti nel mare immenso delle mattine vissute tra l’ondeggiare del mare e i silenzi incerti di una città, prima del risveglio.
Amati! Noi ci siamo amati. Amati fino a distruggerci. Quale legame può esserci tra l’amore e la perdizione? Il tempo è un camminare tra macerie. Anche il nostro amore unisce i ricordi, diventati macerie, e la bellezza dell’istante.
Riusciremo mai a cogliere l’istante? Anzi, riusciremo ancora a cogliere l’istante?
La farfalla non ha le ali spezzate. C’è sempre un qualcosa che viene a mancare e questa mancanza noi la giustifichiamo con la stanchezza. Non è stanchezza. È il passo del vuoto che si inserisce tra le lontananze dell’anima e le lontananze dei viaggi nella nostra vita.
Io ho sempre inciso le mie partenze di lontananze e cercando di recuperare le lontananze ho trovato le pazzie dei ritorni…
Pazzie? Mi hai chiesto più volte perché i ritorni sono pazzie… Ti rispondo subito. Perché sono semplicemente delle illusioni. Ritornando si pensa di ritrovare ciò che abbiamo lasciato. O forse di ritrovare soltanto la polvere sui giorni che abbiamo trascurato. Ma non è così.
Con la polvere non sono mutati i giorni nel tempo. Siamo noi a non essere più gli stessi. Ti pare poco? È l’antico dilemma del tempo che lacera anche le corazze dei gladiatori… Ma i gladiatori avevano le corazze? Bisogna capire cosa si intende per corazza…
Ora tu resti nella solitudine della tua anima a raccontarti il nostro amore e vivi gli spazi dei distacchi e del ciò che siamo stati e del ciò che eravamo e non siamo più. Io cerco di soffiare sulla polvere caduta sui gradini che ci hanno visto protagonisti. Non personaggi tra gli altri. Protagonisti nell’amore e io un saltimbanco per ironia e per dimenticanze.
Io vivo per non impazzire o vorrei impazzire per capire fino a che punto la vita mi trascinerà nel “gorgo muto”.
Mi hai semplicemente detto: “Vorrei tanto capire cosa possa significare per te vivere per non impazzire. Ti porti dentro un senso del tragico che ha i colori di una morte a Venezia. È come se avessi secoli tra le pieghe del tuo nastro che si stende e si riavvolge. Riavvolgilo questo nastro. Definitivamente e dimentica. Per non impazzire e per vivere bisogna dimenticare. Lo so cosa pensi. Dimenticare, per te, è rompere con la fedeltà alle radici”.
Poi ti sei fermata in un accenno di attimo. E subito: “Tu sei un maestro. Non c’è bisogno che io dica questi dettagli. Forse bisognerebbe anche rompere i legami con le radici quando queste radici sono agonia, soprattutto se queste radici non ti permettono di sfogliare e spaginare le radici seppellendole. Non si tratta neppure di coraggio. Tu sei stato sempre un combattente, anzi, ripeto, un maestro, e perché ora ti fermi davanti alla linea di un fiume e resti in contemplazione? Mi risponderai con il silenzio perché l’immenso che porti nel cuore è uno scavo di esistenze”.
E il nostro amore? Bisogna ogni tanto sfidarsi con le banalità, giocando alla sfida dei moschettieri con l’ironia che un tempo mi apparteneva.
Mio padre in una sera d’autunno mi chiese: “Perché hai perso il tuo sorriso? Perché nei tuoi occhi non c’è più l’allegria che conoscevo?”. Non ho mai dato risposta a questa domanda. Non so se ho un rimpianto di ciò o soltanto queste sue parole si aggrappano alle pareti della nostalgia. Ma io vivo per non impazzire, forse perché vivo di amori mancanti. Non di amori mancati, ma di amori mancanti.
Dovrei dare un senso alle parole che mi hai rivolto? Sono parole o restano soltanto pensieri? O accetto il tuo ancoraggio che è il porto del mio silenzio?
Ti voglio leggere il pensiero di uno sciamano. Tu sai che gli sciamani mi accompagnano sempre in questa stagione di vita, che non cerca certezze perché sono io a non avere bisogno di certezze.
Lo sciamano che ho incontrato nelle Isole delle Onde sullo Scoglio mi ha semplicemente sussurrato: “Quando è la pazienza a strappare il filo tra te e il deserto, non domandarti perché accade. Quando la tua donna continua a darti amore e a dire che ti ama, ma vive di stanchezze, non ascoltarla con la affidabilità che le hai concesso. Slega sempre le corde che ancorano la tua zattera al molo dei venti d’altura. Non avere mai paura di rischiare. Non ti porre in ascolto di chi ti offre consolazioni. Sorridi e anche senza remi allontanati dalle onde che spingono alla deriva. Ci sono maree nella tua anima. Ci sono deserti nel tuo cuore. Ci sono voli di aquile nel vento delle tempeste”.
Non potrò dimenticare l’ascolto dello sciamano. È come se mi avesse indicato le vie.
E il nostro amore? I tuoi pensieri? Ti osservo mentre resti perplessa. E taci.
Non sei più la mia danzatrice araba? Io cammino lasciandomi guidare dalle parole dello sciamano che ho incontrato nelle Isole delle Onde sullo Scoglio. Non so se resisterò alla solitudine dell’Isola. Non so se mi lascerò trasportare dalle Onde. Non so se abiterò lo Scoglio.
Può essere, questa, la mia ultima lettera? Forse.
Ti recito i versi di un poeta arabo – persiano vissuto tra il 1425 e il 1495: ‘Alì Hariri. Un poeta curdo di Hakkari.
Leggo:
“La tua bellezza cara fiacca questo mio cuore,
il fato fa tremare nella mano la mano”.
Posso ancora chiederti se gli orizzonti hanno tramonti o albe nei tuoi occhi… A chiederti ciò mi perdo tra i ritagli e gli intagli dei nostri destini.
Vedi, mia cara, c’è confusione. Siamo sempre dentro un mosaico. Frasi interrotte. Brani incompiuti. Discorsi mai conclusi. È proprio vero. L’incompiutezza è il sigillo che i monaci del deserto hanno inciso nella mia esistenza. E tu ci sei, amore mio. Perché se tanto ti ho dato, troppo ho avuto. Ma questo ha un senso?
Ti ricordi quando in una mia conferenza sulla poesia e sul destino citai Ibn Zamrak, quel poeta arabo – islamico vissuto tra il 1333 e il 1393 che si portava l’Andalusia nel cuore e i giardini dell’Alhambra negli occhi?
Tutti domandarono, incuriositi, chi fosse realmente questo poeta. Qualcuno pensò che fosse frutto della mia immaginazione o io stesso nascosto sotto questo nome.
Niente di vero. Io, come sai, invento la fantasia che vive e la fantasia che non vivo è già in me. Ma Ibn Zamrak è stato un poeta, ma anche segretario e ministro nella corte dei sovrani di Granada.
Allora, se ben ricordi, lessi alcuni versi. Anche tu ti strappasti un sorriso con un velo di sarcasmo. Ti confermo che è un poeta esistito realmente.
Ti lascio con i suoi versi affinché tu possa uscire dalle tue parentesi o dai tuoi virgolettati.
Ecco:
“Chiedi all’orizzonte, adorno del fiorire delle stelle:
in lui confido, perché tu sappia chi sono”.
E poi solamente aggiungo:
“Quanti giorni passati a inseguire gazzelle…”
negli anni creduti impossibili
a guardare le stelle
nell’Oriente dei tuoi occhi
in attesa dell’alba…
E ora? Chi sono?
Dove sono i versi di Ibn Zamrak e le mie parole di incantatore tra le danze tue belle?
Aggiungi ciò che ritieni più opportuno. Per te.
Io sono accanto allo sciamano tra l’isola, le onde e lo scoglio.
Ma tu dove sei? Mi hanno detto che ti hanno visto tra i colori delle Mille e una notte…
di Pierfranco Bruni
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