Le calde e accoglienti atmosfere del Jamaica Bar, in via Brera a Milano, hanno accolto le preziose considerazioni ed emozionanti riflessioni su Cesare Pavese emerse durate l’appassionante incontro letterario che ha visto protagonisti Pierfranco Bruni (illustre letterato, poeta e scrittore, già candidato al Nobel per la Letteratura) e la Fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo. Evento organizzato e coordinato da Stefania Romito, fondatrice di OPHELIA’S FRIENDS CULTURAL PROJECTS e curatrice letteraria del NUOVO RINASCIMENTO fondato da Davide Foschi con presidente Rosella Maspero. Un evento che ha preannunciato l’importante gemellaggio tra il NUOVO RINASCIMENTO e la FONDAZIONE CESARE PAVESE, rappresentati all’evento da Silvia Boggian (project manager Fondazione Cesare Pavese) e Silvana Calligaris (Vice presidente Fondazione Cesare Pavese).
Le tematiche emerse nel corso dell’incontro sono state intense e illuminanti. La grande acutezza intellettuale di Pierfranco Bruni ha posto l’accento sul percorso umano, oltre che letterario, tracciato da Cesare Pavese negli anni in cui imperversava la poesia ermetica, dominata dalla presenza di Montale, l’antipavesiano per eccellenza. La poesia in prosa di Pavese, il suo verso lungo, scardinava quei dettami imposti da Benedetto Croce, tanto amati dalla poetica montaliana che inneggiava a un modernismo lirico ed esistenziale che di fatto non faceva altro che mettere in scena la poetica esistenzialistica di Pirandello. Il “mal di vivere” di Montale è mutuato dal “Mal Giocondo” di Pirandello, in una visione falsamente innovativa. È chiaro come in questo ambiente, in cui le contraddizioni sono mascherate da convenzionali innovazioni, lo spirito autonomo e indipendente di Cesare Pavese, che si rifaceva alla dimensione mitologico-simbolica dei lirici greci e latini innovandola, non poteva trovare accoglimento nemmeno tra coloro che apparentemente si dichiaravano suoi “amici”. Così Natalia Ginzburg, così Italo Calvino. Personaggi che hanno ricevuto molto da Pavese e che non hanno esitato a rinnegare una amicizia che, di quell’autentico valore concepito da Pavese, non aveva nulla. Un personaggio scomodo a causa della sua propensione a “dire sempre e comunque la verità”, del tutto privo di false ipocrisie e difficilmente classificabile nell’ambito di categorie ideologiche e politiche. Uno spirito libero che faceva paura e che bisognava “contenere” anche adottando strattagemmi devianti dalla realtà come la sua accusa di antifascismo, che gli causò il confino a Brancaleone Calabro, o l’accusa di antisemitismo attribuitagli in virtù della sua decisione di non inserire nella collana di narrativa un libro di carattere storico-cronicistico come “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Scelta stilistica e non di certo ideologica. Atteggiamenti volutamente fraintesi al fine di arginare e limitare un autore la cui “intelligenza libera e critica” costituiva una pericolosa mina vagante. Quello stesso spirito critico che si respira anche nei libri di Pierfranco Bruni che tendono a demolire le stereotipate visioni imposte da una certa critica letteraria. Come suggerisce lo stesso Pierfranco Bruni, bisognerebbe riscrivere la storia della letteratura, ponendo l’accento su alcuni personaggi, tra cui Manzoni, Calvino a Norberto Bobbio, che più di altri hanno evidenziato una grande incoerenza intellettuale e letteraria.
Bruni pone all’attenzione il concetto della grecità del mito e del simbolo recuperato da Pavese, la sua riscoperta (da grande antropologo dell’umanesimo quale era) del senso profondo della liricità greca-mediterranea in un’epoca in cui Saffo e Ovidio sembravano essere scivolati nell’oblio. Un autore che ha vissuto la letteratura come intreccio tra vita, morte e mito, nella cui poesia si rinvengono quegli archetipi che fanno parte di una griglia fatta di simboli che il tempo e il superamento della realtà trasformano in mito. La storia è superamento della realtà perché viene attraversata dai sentieri della memoria, recita il libro “Amare Pavese” di Pierfranco Bruni. Per Pavese la storia non è cronaca, non è rappresentazione fotografica del reale. Per Pavese la storia è recuperare quel senso del mistero che si custodisce tra le pieghe della memoria. Gli stessi luoghi geografici, come la sua Santo Stefano Belbo, vengono rappresentati in una visione idealizzata, immersi nella sacralità del mito. La casa diventa il luogo dell’anima in una letteratura-nostos di ritorno al focolare domestico. La vocazione antropologica di Pavese emerge in queste concezioni mutuate dalla dimensione filosofica antropologica di Mircea Eliade per il quale nel viaggio esistenziale bisogna costantemente superare il labirinto per poter fare ritorno a quel focolare domestico che consiste nel ritrovare il contesto, fatto di personaggi e oggetti, che hanno costituito la base della nostra formazione esistenziale. Una antropologia dell’anima che avvicina Pavese a Eliade e lo allontana da Ernesto De Martino la cui attenzione si incentrava sull’aspetto folcloristico dell’antropologia, in uno sguardo maggiormente orientato verso la storia dei popoli e delle civiltà. Con Ernesto de Martino, Pavese collaborerà alla “collana viola”, pur prendendo le distanze da una antropologia storico-folcloristica.
La vocazione antropologica di Pavese emerge in diversi suoi lavori letterari tra cui “Paesi tuoi” e “Feria d’agosto”, ma è nel romanzo “La luna e i falò” che questa visione raggiunge la sua massima sublimazione. Un falò che simboleggia la volontà di annullare tutto, perfino la memoria. Memoria che rimarrà custodita nella cenere. Quella cenere che verrà illuminata dalla luna dando voce alla memoria. Quella stessa luna che aveva illuminato la volontà di annullare tutto, inclusa la memoria. Suggestive visioni antropologiche che si rivivranno in molti altri lavori pavesiani tra cui “Fuoco grande”, il romanzo scritto a quattro mani con Bianca Garufi che verrà pubblicato postumo. Con Bianca Garufi, Pavese vivrà un rapporto di sublime intesa professionale e sentimentale. Sentimento e letteratura si intrecciano nella profondità di due anime affini. Bianca è la donna dea, musa ispiratrice dei “Dialoghi con Leucò”. Una donna che incarna la vita e la morte, la bellezza e l’indefinibile, il mistero e la finzione. Come scrive Bruni: “É Bianca che intreccia il canto dell’esistere e del morire perché in essa c’è la discesa negli Inferi, ovvero il mito che si abita nel rito. Per Pavese, Bianca Garufi è stata la donna che ha scavato maggiormente nella sensualità del mito, simboleggiando un modello di carnalità e di sensualità che rimanda alle figure mitologiche omeriche di Calipso e Circe”.
Nel corso dell’incontro Silvia Boggian (Project Manager Fondazione Cesare Pavese) ha messo in evidenza le attività e le finalità della FONDAZIONE CESARE PAVESE tra cui quella di invitare a una conoscenza approfondita del “poeta delle Langhe” in tutti i suoi aspetti esistenziali, perché è soltanto attraverso una consapevolezza del suo percorso di vita che è possibile cogliere l’anima dei suoi scritti. Tra le attività della Fondazione vi è il “Festival Pavesiano”, che si tiene ogni anno a Settembre, il Museo pavesiano, attualmente in fase di ristrutturazione al fine di creare una installazione più interattiva anche per le scolaresche e il Premio Cesare Pavese, importante riconoscimento che venne assegnato anche a Pierfranco Bruni nel 1975 per il suo libro dal titolo “Interventi pavesiani” (Pellegrini Editore).
La Vice presidente Silvana calligaris ha posto l’accento sulle visite “immersive” organizzate dalla Fondazione che mirano a una conoscenza di quei luoghi appartenuti ai personaggi pavesiani. Personaggi reali che la magia del mito di Pavese ha trasformato in simboli.
I prossimi due eventi dedicati al libro di Pierfranco Bruni “Amare Pavese” si terranno a Santo Stefano Belbo e a Roma, altra località tanto amata da Cesare Pavese. Per non dimenticare un autore che ha segnato un tracciato letterario-esistenziale importante destinato a durare nel tempo, nella mitologia magica di un’antropologia dell’umanesimo.
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