Premessa. Il servizio andato in onda il 18 maggio su Rai Uno intorno alle 21.30, per ricordare, omaggiare, Franco Battiato è stato molto deludente. Insistere con forza sugli inizi è stato fuorviante dal punto di vista culturale e delle ricerche tematiche e musicalmente linguistiche. Vero che è stato uno sperimentatore, ma quel suo sperimentare degli incipit entra in in contesto di una precisa temperie che ha come maturazione un processo marcatamente metafisico.
Il Battiato che resta, a mio avviso, è quello degli ultimi 35 anni. Senza nulla disconoscere degli incipit. È quello che fa della “canzone” una vera e propria orchestra tra linguaggi non sperimentali, ma compiuti e che si assestano in una manifestazione tra testo musicale, basso sui toni o nei toni, linguaggi e culture antropologiche, filosofiche e religiose oltre ad una identità dell’immaginario in immagini. È mancato completamente la sua Tunisi e il mondo dei dervisci. Il sacro, il mito, il sublime, il religioso archetipo e l’arcano: dove sono finiti?
Certo, in Battiato ci sono diverse fasi che hanno comunque una loro permanenza. L’entrata in scena del filosofo Manlio Sgalambro ha “disarticolato” però un modo di comparazione con le arti e alcuni precisazioni nell’argomentare il tema del viaggio, del tempo e della morte come comparazione tra ortodossia e limite. La filosofia è entrata con forza in quella metafora del “bardo” tra visioni orientali e status occidentale. Sgalambro ha avuto una funzione importante sulle problematiche dell’essere e del tempo, e non un passaggio soltanto. Ma cosa è il raccontabile in Battiato?
Non so se sia raccontabile Franco Battiato. Eppure si ha sempre la sensazione di doverlo raccontare per cercare di afferrare il senso del tempo nel limite dello spazio tra poesia, musica e pittura. È una dimensione nell’onirico del Viaggio. Quel viaggio forse omerico. O quel viaggio oltre. Cosa è il raccontabile?
Più volte mi sono soffermato su percorsi e intrecci che hanno caratterizzato il viaggio dei linguaggi e dei colori di Battiato. Uno di questi incisi importanti è dentro la visione dell’invisibile e indivisibile e del tempo nell’immaginario della metafora dantesca tra eredità d’Oriente e processi culturali occidentali. L’invisibile, in Battiato, è volo in un invisibile che non resta tale perché è scorcio di orizzonte. Quell’Orizzonte che conosce l’ordine di uno sguardo senza limiti.
Un attraversamento che è un passaggio di dei e di uomini. Il Samsara! Leggere il limite oltre il confine. È come superare l’oltre siepe e navigar nel mezzo di un cammino con la virtù e la conoscenza.
A Dante, come a Rumi o alla cultura persiana ed araba, Battiato si lega proprio per comprendere, in un testamento di vite tra carnalità e corpo, cosa passa tra la virtù e la conoscenza. Proprio nel suo lavoro del 2012 dal titolo “Apriti Sesamo” Battiato mette in gioco il viaggio irto per penetrare il “viver come bruti”. Entra con l’alchimia nel Canto XXVI dell’Inferno di Dante, assumendo Ulisse come navigatore impavido tra vita, tempo e morte in una chiosa lucida e incisiva come: “E mi piaceva tutto della mia vita mortale…”.
Siamo al “Testamento” inserito, appunto, in “Apriti Sesamo”. Dirà ancora: “Il tempo perduto chissà perché,/Non si fa mai riprendere/I linguaggi urbani si intrecciano/e su confondono nel quotidiano”. Un Battiato che intreccia Dante al “Cantico dei Cantici”, sopratutto quando afferma: “Fatti non foste per viver come bruti,/Ma per seguire virtude e conoscenza/L’idea del visibile alletta, la mia speranza aspetta”.
Dante di Battiato è una metafisica che filtra la metafora di labirinto e si racconta nel cerchio magico della danza dei Sufi che sanno guardare le stelle non solo con lo sguardo nello specchio occidentele di Beatrice ma la donna di Salomone che cerchia la luna anche nell’alba.
Così: “Appese a rami spogli, gocce di pioggia/ si staccano con lentezza,/Mentre una gazza, in cima ad un cipresso, guarda”. Fino a raggiungere la contemplante consapevolezza del profondo pensiero: “Peccato che io non sappia volare,/Ma le oscure cadute nel buio mi hanno insegnato a risalire”.
Le cadute nel buio insegnano. È la lezione di un forte testamento che ha le sue radici in tutto la cultura orientale. Ma Battiato sapeva bene che Dante senza una lettura dei ceppi australi orientali non ha respiro oltre il vissuto del passaggio del samsara. Oltre la morte le stelle, ovvero la luce china sui segni dell’infinito incolmabile. Perché si vive sempre il “crescere e il capire” come “volontà” nel mezzo di uno “sguardo feroce e indulgente”.
Ma la “Divina Commedia” non ci offre : “Uno sguardo feroce e indulgente/Per non offendere inutilmente”? Il Dante delle contrapposizioni non è forse quello che ripensa alla libertà che diventa “reciproca di non avere legami” attraverso cosa? “Le più audaci riflessioni”. Infatti Dante visse di audaci pensieri proprio nel momento in cui si contrappose alla teologia delle contraddizioni.
Il viaggio sia in Dante che in Battiato non è altro che un passaggio. Inevitabile passaggio non dalla vita alla morte, bensì dalla vita all’invisibile. Dalla vita alla vita nella reciproca visione della figura di Beatrice che diventa, appunto, vita nuova. Perché in Battiato il “piacere” della vita mortale ha l’infinito in una trasfigurazione immortale dell’invisibile fino a raggiungere mondi universali.
La chiusa di ogni Cantica di Dante è il toccare i mondi degli universi. Ovvero quel “centro di gravità permanente”! L’invisibile di Battiato nel permanente visibile di Dante come specchio dell’universo sono un incontro mistico nel “Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male”. Battiato era a conoscenza dell’importanza della parola e della parola che va oltre l’infinito: “Noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati”. Andare oltre è forse soltanto il finito. Forse. Ma può essere il filo infinito nell’intreccio del filo che diventa la corda tesa tra la memoria e la profezia. Dunque. Cosa è il raccontabile? Può superare l’immaginario? Quello spazio nel cerchio o nell’orizzonte verticale non può essere raccontabile. Viverlo tra le pause della vita? Il mosaico può essere formato da un puzzle soltanto? Resto con l’interrogativo appreso alla cetra del destino. La pazienza è il resto del destino, tra coerenza che si perde nella incoerenza di essere uomini, pur convivendo nel dubbio di conoscenza. Un invito al viaggio nella saggezza della conoscenza del sublime.
Conclusione. Certo, Battiato non è assolutamente classificabile. Il servizio andato in onda sulla Rai è stato molto debole. Non ha tenuto conto nelle giuste relazioni il rapporto tra parola e linguaggi religiosi, tra linguaggi musicali e meditazione contemplante, tra metafora e tempo del reale. “Povera Patria” è solo un testo che non sconvolge il modello sperimentativo della metafisica dell’anima che Franco ha abitato negli ultimi venti anni. Basterebbe analizzare il testo senza la musica per vivere un vero e proprio confronto diretto tra la parola e il ritmo della musica. “Bandiera bianca” è un refrain nel contesto di quegli anni in cui è nato il testo. Ben altro è il processo successivo in cui al “rumore” si sostituiscono completamente il silenzio e la pausa come spazio nel tempo tra parola, musica e immagine.
Storia, identità e tradizione sono dentro la metaforica visione tra il bene e il male. Battiato ha il suo rinizio, o ricominciamento, con il testo “La cura” e va oltre sino al modello Baudelairiano dell’invito al viaggio tra il mondo dei sufi e il dialogare voncon Sgalambro. Ovvero si ha la permanenza del viaggio andando oltre il Viaggio. Cosa è stato il concetto e l’ancora del Bardo nelle stagioni dell’amore e della fine che conosce l’infinito? Chiedo troppo? Forse. Ma con Battiato bisogna essere profondi. I suoi testi non sono solo canzonette. Si poteva fare di meglio in Rai per ricordarlo. Molta leggerezza e poca acutezza culturale. Molta superficialità e poca accortezza nelle problematiche e nei processi culturali che ha abitato e lo hanno abitato.
Pierfranco Bruni