Perché? Perché ci conduce lungo il cammino del tempo e ciò vuol dire che ci “impone” l’immagine e l’immaginario della memoria con tutti i suoi dettagli tra passato, ricordo e nostalgia.
Scavare il sapere di Proust significa, tra l’altro, smobilitare l’impalcatura dell’infanzia giovinezza, che si fa dissolvenza, come abbiamo sostenuto in “Il sottosuolo dei demoni” (Solfanelli), nel quale dedichiamo importanti pagine proprio a Proust. Proust deve restare nella soffitta? Certo. Non per me. Non per noi. Ma per tutta una cultura, dico cultura non letteratura, che ha timore di resistere alla memoria e al tempo, ha il tremore della svalutazione dell’età.
Due strutture di vita diventano inossidabili iniziazioni di trasparente antropologia della conoscenza della gnosi. Il tempo siamo noi perché siamo stati tempo e lo siamo. La memoria è un radicarsi sempre più dentro questo tempo che si realizza come sottosuolo.
Il sottosuolo riporta Dostoevskij chiaramente, ma è una temperie del dolore che affligge la vita e scalfisce i giorni nello scavo dell’essere vivi ed esistenti e ancora spietati. Proust ci educa non alla religiosità della memoria. Errato. Ma ad essere esistenti nell’essere vivi nel tempo, come avrebbe detto Franco Califano, piccolo, “tempo piccolo” che ci rende grande. Appunto.
Uno degli eredi più potenti del nostro contemporaneo sradicamento dei linguaggi e delle filosofie impossibili resta Franco Califano. Opportuno? Inopportuno? Semplicemente vero! Il tempo piccolo e la noia sono epiincastri della parola. Cosi come il suo sottoscala della memoria, sottoscala degli occhi e delle ciglia, che è sprofondamento nel sottosuolo dell’anima.
Proust dentro Franco Califano? Certamente sì. I poeti sono anime in transito quando abitano il cielo infinito oltre l’oblio. Il Califano della noia di Leopardi è il Proust del Leopardi che strizza l’anima alla matita sotto le ciglia del tempo stanco in un tempo piccolo, che recita il ritorno di un tempo impossibile.
In fondo Proust neutralizza il tempo teatralizzandolo nella memoria finita nell’infinito di un immaginario che non muore. Questo è un grande compito della ricerca del tempo perduto e ritrovato di Proust di cui la nostalgia non è malinconia, ma consapevolezza della perdita. La nostalgia è il vero specchio – maschera che tutto si dissolve e resiste soltanto una ricordanza discordanza tra la contemporaneità delle esistenze.
Certo che Proust fa paura. Perché costringe a guardare le rughe e “ordina” di riflettere su quella goccia di pioggia che batte sul vetro della finestra di Thomas Mann. Il tutto per dirci che siamo viventi, ma siamo anche morenti nello spazio che Bachelard ha distratto alla dimenticanza. Se il ricordo è un assillo e un esilio la dimenticanza è la morte di tutto. Che significa la fine compiuta nella incompiutezza della morte stessa.
Proust è incantevole tragico incalzante incancellabile. Proust ci lasciava il 18 novembre 1922. Ora sono 150 anni dalla nascita. Dimenticato? Si dimentica sempre ciò che sfilaccia l’anima e la rende trama di fili della favola bella e inesistente di Alice.
Un paese delle meraviglie che è un sogno. Proust non è un sogno. È la deriva del sognare. È una eredità e le eredità non sono passioni, ma vita e vissuti, esistenza e presente. Uno scrittore non è solo la sua vita. È la fantasia mistero di vite sopravvissute e di profezie che il tempo non sconfiggerà mai.
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