Cosa è stato il rapporto tra Luigi Pirandello e Marta Abba? Un interrogativo che permane e le lettere tra i due non permettono da dare un senso preciso al loro legame. È certo che Pirandello visse il loro rapporto amandola. Marta Abba considerò Pirandello sempre un maestro, il suo maestro. Nell’ultima lettera che Pirandello scrisse a Marta Abba, in uno stralcio, si legge: “Se penso alla distanza, mi sento subito piombare nell’atroce mia solitudine, come in un abisso di disperazione. Ma Tu non ci pensare! Ti abbraccio forte forte con tutto, tutto il cuore. Il Tuo/ Maestro!”. Risale al 4 dicembre del 1936, scritta a Roma. Il 10 dicembre Pirandello moriva. Tutto ciò che segue è invenzione. Una libera interpretazione non di ciò che sarebbe potuto essere o di ciò che si sarebbero potuto dire. È una finzione che indossa la maschera e la fantasia.
Il vento non porta foglie di parole. Si posa tra i fili dei capelli e le ombre giocano al chiaroscuro tra gli specchi appesi alle pareti.
“Siamo vissuti… Forse troppo più del dovuto”, afferma Luigi.
“Io ti osservo, ti guardo, ti ascolto, maestro, e la tua sapienza è legata ai miei occhi, al mio sentire, al mio ascoltare, al mio essere…”, nella lievezza di un respiro così si pronuncia Marta.
“Tu neghi il fatto che lo specchio possa riflettere la maschera e che il volto è più catturabile dei segni della maschera. Tra di noi non c’è soltanto il destino di essere maschera e volto. Tra di noi c’è l’implacabile spazio del tempo che va oltre ogni misura, perché tutto, vedi, deve fare i conti con il tempo… Posso io calcolare il tempo quando tu mi sei di fronte e la tua bellezza incide nel mio sguardo come diamante e come pietra d’Oriente…”, è Luigi.
E così prosegue: “Mia cara Marta ci sono tre recite nella vita che si rappresentano come se fossero foglie di vento sbattute da una marea a un nubifragio”.
Marta: “Parla, maestro, ti ascolto e questo mio ascoltare non è afflitto dalla malinconia… è semplicemente un respiro che cade tra il lento sospirare e la bellezza di una parola che custodisco gelosamente… sono qui per accoglierti…”.
Luigi: “Tre recite, dunque?”
Silenzio. Poi Luigi riprende: “La prima è quella che viviamo dentro di noi e non ha bisogno di maschere e neppure di identificarci o identificarsi nel doppio. È conservata dentro il profondo di noi. Uscirà dalla nostra coscienza quando riterrà opportuno.
La seconda è quella della maschera e qualunque vestito possiamo indossare ci sarà sempre lei che primeggerà e farà da protagonista. Apparirà come la sola e unica verità. Apparirà. Ma sa che non è così, perché la verità è costruita su tante verità e le tante verità sono gli intrecci di quelle finzioni che nascono proprio nel momento in cui vengono meno la fantasia, il sogno e il sonno”.
Ancora una pausa. Luigi: “La terza recita è quella del volto. È quella più dura. È quella che ci porta al precipizio. È quella che ci salva. È quella che ha il coraggio di non rappresentarsi più ma di essere. Tra la prima e la terza, mia amata Marta, ci sono le illusioni e quando vengono meno subentra lo sconforto. Noi a quale recita oggi apparteniamo?”.
Marta: “Non saprei, maestro…”.
Luigi: “Io penso di saperlo. Tu non mi hai mai amato abbastanza per catturare la solitudine e sconfiggerla. Quella solitudine che si aggrappa ai miei pensieri, alla mia scrittura, alla mia morte che si sconta nel tragico senso di affrontare anche questo mio amore verso di te…”.
“Ma, maestro, io… io ora sono molto confusa… Il teatro per me è la vita e la vita la vive in teatro… Quando sono sulla scena vivo la vita…”.
“No, amata Marta, non devi mai pensarlo… Sulla scena tu sei una maschera o forse sei una maschera anche quando lasci la scena e parli con me…? Già, brutto mestiere il mio… il nostro… A volte mi perdo nei ruoli… Ora sono sulla scena o sto parlando con te mentre cammino lungo la via della città…E’ difficile separare, distanziare, cogliere quell’istante che spezza la verità dalla finzione… O forse noi abbiamo raggiunto il limite della fantasia?”.
Marta resta perplessa.
Osserva Luigi che sembra raccogliere non più le parole, ma il silenzio perché è convinto che soltanto il silenzio vivrà oltre la finzione.
Marta esce dalla sua incertezza e parla a bassa voce e con lentezza.
Così: “Io non so, maestro, se esistono queste tre recite. Credo nel teatro e nella recita, ma applicare una distinzione mi sembra difficile. Mi correggo. Non volevo contraddire. Non volevo dire se esistono o meno. Non mi sono mai posta il problema perché non credo che sia un problema. Io recito e fingo una vita. Poi vivo la vita”.
Luigi: “Quando ti ho incontrata era il febbraio del 1925. Avevi appena ventiquattro anni. Io ero già un uomo stanco con i miei cinquantasette anni. Un uomo vissuto, abbastanza, e tu una vita tutta da vivere. Eppure io in te ho visto la giovinezza, la primavera, la luce. Questa nostra storia è andata avanti per lunghi anni. Ora sento la fine avvicinarsi ed io e te non siamo stati un amore, forse neppure un’amicizia, e forse neppure tu sei stata una allieva. Così brava, così intelligente, così preparata alla recita… Se faccio i conti con tutto questo tempo… Io ho scritto ciò che tu mi invitavi a scrivere, non ciò che mi chiedevi… Ciò che io vedevo in te… Ho scritto, in questi anni, per te… Mi bastava osservarti per scrivere un testo che solo tu potevi mettere in scena… Ho riadattato persino D’Annunzio per te, e tu sei stata la mia arte che mi ha permesso di sconfiggere la solitudine… Pensa un po’… La mia atroce solitudine sei stata tu a sconfiggerla e neppure un bacio mi hai concesso…”.
“Ma, maestro, sono desolata…”.
“Non esserlo… Non entrare ora in una maschera… Ora è opportuno che tu diventi un volto, un viso, senza aver bisogno dello specchio… Io sto per entrare nella prima recita… ma tu, amata Marta, non considerarmi un personaggio tra i miei personaggi… Guardami con il tuo viso e cogli in me il mio viso… Solo per un attimo… Un attimo soltanto perché poi andrò via e andrò via senza bisogno di negare la finzione e senza il bisogno di cercarla… Andro via con il vento della fantasia che soffia dai mari della Sicilia che portano orizzonti arabi, echi greci, danze islamiche… Non mi chiedere altro… E ora di far scendere la tenda, ma continua a guardarmi con il tuo volto specchiandoti, amata Marta, nel mio volto… Almeno per questa volta…”.
“Maestro, maestro il tuo respiro…”.
“Ascoltalo come se fosse un abisso e poi continua ad essere nella recita delle maschere sino a quando la disperazione non toccherà la tua anima…”.
E il vento soffiò.
Soffio così forte che i cori del Mediterraneo giunsero con suoni e con echi di musiche, di danze, di canti…
Pierfranco Bruni