La Greta, quella ragazzina svedese inventata dalla rete telematica mondiale a cui è stata rubata l’infanzia dalla “società dei consumi”, è riuscita non a commuovermi ma a riportarmi indietro fino ad aver raggiunto la mia “società dei consumi”, quella della mia infanzia, quella dei miei anni ‘50. Beata memoria, la mia memoria.
Il vero problema è che la mia “società dei consumi”, quella del mio ieri, non è quella di oggi, quella della Greta e dei suoi “gretini”. Sono cambiati i modelli di riferimento. Quella di ieri era una società comunitaria a dimensione umana e paesana, quella di oggi è una società globale a dimensione mondiale che “considera gli uomini non più come cittadini o persone ma come utenti, clienti, consumatori sfrenati di un mondo globale”. Ieri il “potere” su di noi fanciulli veniva esercitato dai nostri papà, oggi invece viene esercitato dai mondialisti, che sono dei perfetti sconosciuti, oltre che degli usurai.
Sono stato ragazzino anch’io come la Greta. Sono vissuto anch’io nella “civiltà dei consumi”. Erano i primi anni ’50 e noi bambini eravamo dei voraci consumatori. Consumavamo di tutto, fino in fondo: gli abiti li consumavamo fino all’ultimo filamento di stoffa, le scarpe fino all’ultima particella di suola, il pane fino all’ultima briciola. Infatti il piccìddàtu (pane di 2 Kg.) doveva soddisfare il bisogno alimentare dell’intera famiglia, almeno per una settimana. Nulla si distruggeva, ma tutto si trasformava. Il lungo cappotto, anche se consunto, durava fino a quando non passava dal padre al figlio. Il vistoso buco comparso sotto o sopra la scarpa veniva “coperto” con un pezzo di suola dal calzolaio del paese. L’alimentazione era dietetica (non perché obesi ma poveri). La carne si mangiava solo di domenica. Il vino veniva prodotto in casa e l’acqua prelevata dalle fontanine pubbliche su cui è ancora impresso il Fascio del duce. Nei mesi di calura, in assenza di frigorifero”, si consumava la “neve” (grossi pezzi di ghiaccio) acquistata al prezzo di 1 soldo (= 5 centesimi di lire). Nei mesi di freddo, in assenza di riscaldamento artificiale (non per non surriscaldare il globo) si consumava la legna per ardere e ci si riscaldava i piedini con la borsa dell’acqua calda. L’acquisto dei beni alimentari e quelli di primissima necessità (naturalmente non di marca) avveniva per il tramite della triste “libretta nera” sulle cui pagine la nostra fornitrice (la Pia di la Estri) annotava il debito che il mio papà doveva estinguere con la triste paga di contadino entro fine settimana (sabato sera).
Al mattino l’alimentazione di noi bambini (che non eravamo per niente “gretini”) consisteva in un tazzone di latte caldo munto al punto giusto dalle due giovani vacche di Peppino lu lattaru (il lattaio del paese).
Noi ragazzini eravamo sporchi non per ignoranza ma per indigenza. Giocavamo con i pidocchi che si annidano tra i capelli e con le mosche che non le uccidevi neppure con il flit. Giocavamo pisciando con naturalezza lungo le vie buie del paese (erano buie non per difendere il pianeta ma per evitare il debito pubblico a venire). Tutto ciò non per spirito di ribellione anni ante marcia ’68 o anno 2019-gretino, incuria o distrazione ma perché era la nostra società, costruita dai nostri papà ritornati dal fronte di una guerra mondiale, dalla quale sono nati quei valori che hanno condizionato la nostra vita e le relazioni con le persone a noi care: Amore, Fedeltà, Onore, Fratellanza, Dignità, Umiltà.
A proposito, nessuno ha mai tentato di rubare la mia infanzia. Forse perché ho vissuto in una società migliore rispetto a quella in cui vivo oggi.
Tonino Filomena