Siamo figli della coerenza. Figli che hanno raccolto la parola il ricordo la passione di un viaggio che è quello compiuto dai nostri padri. Con i nostri padri non smettiamo mai di dialogare perché quando loro non ci sono più il loro orizzonte resta dentro di noi. Vive dentro di noi. Così nel magnifico libro di Tonino Filomena: “Il soldato contadino”, che si presenta in una elegante veste tipografica di Apulus, pagine 160. Un padre, una paese, una storia. Vite incrociate. Il contadino che diventa soldato e da soldato non smette di essere contadino con una sua precisa dignità.
Ci sono domande che affiorano soltanto quando si cerca di capire, tento di capire e mi lascio aggredire da inconsistenze storiche. I sopravvissuti di una generazione che aveva negli occhi il Sol d’Africa sono andati via perché hanno consumato il tempo dell’orologio e mai si sono lasciati bruciare dalla storia. Hanno attraversato tutte le guerre possibili e nel momento in cui avrebbero potuto ripensare ad una storia strapazzata sono stati ancora di più mai indulgenti, e rigorosi con la propria coscienza non hanno smesso di raccontarsi nella dignità dell’orgoglio e della coerenza.
Certo, Tonino Filomena racconta una lunga memoria che non è soltanto una storia, ma un destino. Il destino di generazioni che hanno creduto all’onore della Patria che significa amore di Patria. Fondamentale resta la citazione che Filomena pone come apripista «Lui non mi ha detto come vivere, ha vissuto per farmi vedere come si faceva.» di Clarence Budington Kelland. Perché lui loro erano quell’isola abitata nel paese.
È vero che “un paese vuol dire non esser soli” (Pavese). Ma il paese ha il suo abitato. E il nostro abitato, il mio abitato, è racchiuso nel padre, nella madre, nelle vie che a loro portavano, in una casa che, tra le pareti, è trascritto una vita, un tempo, uno spazio, una geografia di cuori che sono diventati frammenti di malinconie.
Si potrà vivere ancora di memorie? E forse siamo qui per scrivere di noi e scrivendo di noi loro continuano ad abitare le nostre parole. Lui loro i nostri padre il padre che non smette di restare dentro di noi. L’incipit del “romanzo – diario” ha questa cesellatura: “Oggi la mia vecchia anima è priva di luce. Non ha nessuno con cui dialogare”. Ma non è solitudine. È conquista del proprio essere nell’esistere e viceversa. Ma non posso continuare a scrivere su questo libro di Tonino perché è come scrivere di me. Di noi. Dei nostri padri che sono andati via trasmettendoci verità silenzi e onore.
Forse il tempo si misura con le onde delle rughe o forse sono i granelli di terra che scorrono tra le righe delle mani a raccontarci il sogno che abbiamo vissuto. E quel sono è fatto di memorie. Certo, è un grande libro. Questo di Tonino. Un libro dove il dovere di scrivere si è trasformato nello scrivere per necessità di vivere una famiglia, un padre, una madre, una sorella, un fratello. Dentro la metafora del viaggio di questo padre ci sono i tasselli di un mosaico di un esistere.
Raccontare del tempo che se ne va è come raccontarsi. Eppure le rose del giardino e gli ulivi della campagna non contano più le ore o le stagioni. Sono rimaste lì asciugate dalla pioggia o rigate dal sole.
Ogni passaggio di parole è un vento tiepido nella carezza di una notte, che sembrava infinita, ma che è scomparsa come se fosse una cometa tagliata che ha raccolto tutto il silenzio delle attese. Raccontare il soldato e il contadino è raccontare un paese una famiglia un destino. Qui è l’intreccio di questo romanzo che è vita e la vita ci riserva distanze che sono assenze. Queste assenze vivono nel nostro sangue. Un libro scritto con dovizia e con un linguaggio che penetra e lascia solchi d’anima.
Pierfranco Bruni
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