Possiamo essere una generazione vissuta con l’ideologia dell’essere sempre “contro”? Arbasino molti anni fa parlava di essere “con”. Ma il “con” significa “consenso”. Il “contro” potrebbe significare “contro-senso”. La verità credo che sia altra. Noi, cittadini di Taranto, intellettuali, docenti, ricercatori, studiosi, giornalisti, lascio da parte per un “attimino” i politici, come usano dire gli uomini colti (e non esiste in un vocabolario corretto) cosa abbiamo proposto di concreto e di sostenibilmente fattibile o fantasioso? Il crollo di Taranto! Credo che ormai si sia “sistematizzato” il concetto di caduta di una città in un malessere che non è solo economico, forse principalmente, bensì esistenziale di generazioni a partire dalla mia. Generazioni che hanno cercato di far mutare le crisi di trasformazione di un assetto territoriale e che invece si sono integrati in una solitudine che interpreta una malessere generale che si trasmette, come una filiera, negli ambienti di lavoro, tra amici, nelle conversazioni, nel dialogare in famiglia.
Noi siamo stati figli di una generazione che ha prodotto malinconie che un tessuto radicato e radicante che ha prodotto nostalgie. Sono sempre più convinto che il vuoto di una politica serena abbia realizzato un quotidiano inquieto. L’apparire più dell’essere. Nonostante le grandi risorse che Taranto ha avuto. Non si poteva creare una nuova città della Magna Grecia quando la Magna Grecia non esiste più. Ancorata alla nostalgia e alle archeologie del pensiero abbiamo creato una confusione che non riusciamo a seppellire. Troppo abbiamo pensato che fosse realmente un luogo dei saperi greci. Invece dagli anni Sessanta in poi Taranto è diventata altro.
Una città industria e non una città turismo. Si sarebbero dovuto creare le nuove culture industriali, ovvero i nuovi saperi industriali e non diffondere una neo archeologia dei beni culturali. Ho riletto, recentemente, gli scritti di Carlo Belli, il vero fondatore del Convegno di Studi sulla Magna Grecia, e hanno un percorso profetico fondamentale. Una città sostanzialmente si trova a fare delle scelte senza pensare di inventarsi forme eterogenee di economia. Qui si è pensato all’Industria come economia e alla cultura come spazio per riposarsi. L’Industria il vero Modello moderno di una economia forte. La Cultura come lo svago o il dopo lavoro. Una contraddizione di fondo, perché sin dagli anni Sessanta i beni culturali venivano intesi come industria avanzata. Così come si è verificato in altre città. Ora siamo veramente al “commissariamento” del pensiero.
Negli ultimi quarant’anni Taranto non è mai stata una città autonoma, libera di esercitare un proprio progetto, forte sul piano di una politica che decidesse un destino con lunghi obiettivi. Si pensi alla Università. Non siamo più potenzialmente in grado di decidere un destino.
Faccio spesso il confronto con una città molto più piccola di Taranto, Cosenza. La conosco bene. Ormai vivo tra Cosenza e Taranto. Eppure Cosenza è stata una città sempre decisionista. Questo perché ha avuto una politica forte e rappresentati che hanno realizzato opere di grande prestigio, ma anche perché la volontà della cittadina è stata una volontà omogenea pur in una eterogeneità politica e antropologica.
Taranto è priva di una antropologia della conoscenza di quelle eredità che hanno vissuto dei condizionamenti e delle contaminazioni. Non abbiamo ben compreso che una Industria come il Centro siderurgico e le culture dei beni culturali non hanno mai fatto impresa. Parlano e parlavano due linguaggi diversi.
Parlo di Taranto, certo. Ma la provincia, il territorio ionico, è un deserto. Spesso una paesanata di friselle! Taranto e provincia non si salvano.
La politica ha ignorato l’impresa cultura perché era priva di un fondamento economico ed ha creduto alla economia del siderurgico. Giustamente. Ma il neo dove sta? Sarebbe dovuta diventare una Città Industria senza cadere nelle nostalgie. Le nostalgie scivolano nelle malinconie e mandano in depressioni interi settori, generazioni, modelli di civiltà.
Taranto ormai non pensi più a fare cultura come impresa. Non ci riuscirà. Pensi invece a sistematizzare la sua industrializzazione e a risolvere il suo crollo.
Lo dico non sotto l’effetto di psicofarmaci. Ma dopo oltre 40 anni di testimonianza, di azioni, di protagonismo e di attività in una città che amo tanto e che è parte integrante della mia vita. La generazione dello “smitico” ’68 si è impadronita dei poteri e non della immaginazione al potere. Quella del ’78 è una generazione di maschere, folli, filosofi, pensatori in libera uscita e che altro? Di illusi! I politici incapaci e noi sconfitti.
Pierfranco Bruni